Le mal de Paris Influenza della canzone francese su quella italiana

Enrico de Angelis

enrico.deangelis[at]clubtenco.it

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Durante la Belle Époque la cultura fin-de-siècle si propagò dalla Francia all’Italia soprattutto attraverso gli strumenti dello spettacolo: prima il cafè-chantant, regno della più sfrenata (e illusoria) joie de vivre, più avanti il tabarin, il varieté, eccetera…

Avrete notato quante parole francesi in questa frase. Non è un caso. Prima dell’arrivo degli americani c’era una prepotente presenza generale della cultura francese nel costume italiano (per esempio nel linguaggio). Restando allo spettacolo leggero a cavallo tra Ottocento e Novecento, la parola «sciantosa» è la francesizzazione di chanteuse. I nomi d’arte che in quell’epoca artiste e artisti scelgono sono spesso francesi: Yvonne De Fleuriel si chiama Adele Croce ed è di Roma. E poi Anna Fougez, Isa Bluette, Gabré… Napoli è la Parigi italiana.

Per tutta la generazione nata all’inizio del Novecento (per esempio i genitori dei miei coetanei) la civiltà francese equivaleva a quella che è stata poi la «colonizzazione» anglosassone. Non era solo una questione di lingua: si guardava a Parigi nei costumi, negli stili, nelle mode, ma anche ai livelli più alti della cultura: pittura, poesia, teatro, danza, musica. Persino il charleston o il tango sono arrivati da oltreoceano a noi via Parigi.

Un caso eclatante degli anni Venti e Trenta in Italia è per esempio quello di Odoardo Spadaro. Fiorentino, comico, fantasista, agisce per molti anni in Francia, e al suo ritorno porta nel nostro varietà e nella nostra canzone una teatralità e un’eleganza colta e brillante, tutta «francese» appunto, chiaramente ispirata a Maurice Chevalier.

Dopo la seconda guerra mondiale questa influenza è andata affievolendosi progressivamente, riuscendo ancora a coprire gli anni Cinquanta (con il colpo di coda dell’esistenzialismo) e scomparendo del tutto – intendo come fenomeno di massa – all’inizio dei Sessanta. Alla fine degli anni Quaranta e nei Cinquanta, infatti, la presenza della canzone francese nella fruizione comune, nella musica leggera, nei programmi radio e nei primi programmi televisivi resiste ma è sempre più tenue e poco influente: diventa qualcosa di estraneo, di diverso, quasi «noioso». Una Juliette Gréco, per esempio, così trasgressiva, a noi giunge mediata da un’immagine molto superficiale dell’esistenzialismo, quasi ridicolizzata: come qualcosa di stravagante, di bizzarramente intellettuale, di snob.

In quegli anni era impensabile, per esempio, trasporre in Italia le canzoni francesi in maniera intatta. Già allora le canzoni francesi erano molto «letterarie», poetiche, raffinate, spregiudicate, rispetto ai nostri schemi retorici, banali, melensi. Se i cantanti italiani le adottano, lo fanno in versioni edulcorate, tagliate, stravolte. Alcune traduzioni sono davvero inqualificabili.

Facciamo un paio di esempi. Per ognuna di queste due canzoni francesi, molto popolari anche in Italia – l’una del repertorio di Edith Piaf e l’altra di Gilbert Bécaud –, vediamo prima il testo originale e poi la banalizzante versione ufficiale che se ne cantava in italiano, rispettivamente di Leonardi e di Panzeri (presumibilmente si tratta dello stesso Leonardi noto editore musicale, il che la dice lunga sull’uso ricorrente di firmare i testi tradotti da parte degli stessi editori, per accorpare ed esclusivizzare i diritti).

«La vie en rose» (Piaf-Louiguy)

Des yeux qui font baisser les miens
Un rire qui se perd sur sa bouche
Voilà le portrait sans retouche
De l’homme auquel j’appartiens

Quand il me prend dans ses bras,
Il me parle tout bas
Je vois la vie en rose,

Il me dit des mots d’amour
Des mots de tous les jours,
Et ça m’fait quelque chose
Il est entré dans mon cœur,
Une part de bonheur
Dont je connais la cause,
C’est lui pour moi,
Moi pour lui dans la vie
Il me l’a dit, l’a juré
Pour la vie
Et dès que je l’aperçois
Alors je sens en moi
Mon cœur qui bat

Des nuits d’amour à plus finir
Un grand bonheur qui prend sa place
Des ennuis, des chagrins s’effacent
Heureux, heureux à en mourir

«La vita è rosa» (versione ufficiale italiana di Leonardi)

C’è la tua immagine nel ciel,
c’è il tuo sorriso in ogni fior;
tu vivi in ogni mio pensier
e la mia vita è nel tuo amor!
Se tu sei vicino a me
sognando insieme a te
la vita è tutta rosa.

È una musica d’amor
che sento in fondo al cuor
nell’aria e in ogni cosa.
Le parole che sai dir,
più lievi d’un sospir
non possono mentir.

Socchiudo gli occhi e ti sento parlar
e la tua bocca mi pare baciare!
Se tu sei vicino a me
la vita è sempre rosa insieme a te!

«Le jour où la pluie viendra» (Bécaud)

Le jour où la pluie viendra
Nous serons, toi et moi
Les plus riches du monde
Les plus riches du monde
Les arbres, pleurant de joie
Offriront dans leurs bras
Les plus beaux fruits du monde
Les plus beaux fruits du monde
Ce jour-là

La triste, triste terre rouge
Qui craque, craque à l’infini
Les branches nues que rien ne bouge
Se gorgeront de pluie, de pluie
Et le blé roulera par vagues
Au fond de greniers endormis
Et je t’enroulerai de bagues
Et de colliers jolis, jolis

Le jour où la pluie viendra
Nous serons, toi et moi
Les fiancés du monde
Les plus riches du monde
Les arbres, pleurant de joie
Offriront dans leurs bras
Les plus beaux fruits du monde
Les plus beaux fruits du monde
Ce jour-là…

«La pioggia cadrà» (versione ufficiale italiana di Panzeri)

La pioggia dal ciel cadrà
e con lei tornerà
a fiorire la vita.
La pioggia dal ciel cadrà
e con me lei vedrà
la più bella del mondo,
la più cara del mondo.

E quel dì
la pioggia quasi timida
nell’aria dolce e umida
lenta cadrà sui tuoi bei riccioli
e pioverà…
e pioverà…

Uniti in un sol palpito,
confusi in un sol fremito,
ti parlerò con tutta l’anima,
ti bacerò teneramente.

Gilbert Bécaud, tra l’altro, è stato il primo a imporre più direttamente nella musica leggera italiana la propria personalità e a plasmare alcuni nostri artisti, negli anni Cinquanta. È un cantautore – figura per noi ancora eccentrica – che influenza parecchio i nostri primi cantautori, anche se ciò avviene, più che nella composizione dei brani, nello stile vocale e interpretativo. Del resto è anche questa una delle novità rivoluzionarie dei cantautori, rispetto al precedente belcanto di stampo operistico e melodrammatico: parlo soprattutto di Domenico Modugno, ma anche di Umberto Bindi, di Gino Paoli, del primissimo Piero Ciampi o del primissimo Fabrizio De André (quello di «Nuvole barocche»). Il canto è gridato (e almeno nel caso di Modugno gli «urlatori» come Mina non erano ancora arrivati) ma strozzato, nasale, utilizzato non per virtuosismi tecnici ma per possibilità espressive, attraverso le sue caratteristiche naturali di timbro e di pronuncia, difetti compresi. Siamo portati a pensare a «Nel blu, dipinto di blu» come la rivoluzionaria innovazione che spacca la nostra tradizione canzonettistica, ed è vero. Ma già nel 1956 (due anni prima!) arriva in Italia la sorpresa di questo Bécaud che addirittura canta in italiano in un film tutto dedicato a lui, Le pays d’où je viens, più esplicitamente e commercialmente tradotto in Italia come Il fantastico Gilbert, che è il primo film a colori di Marcel Carné. In questo film ci sono varie canzoni cantate da Bécaud in italiano, mai pubblicate in disco (allora succedeva), e che quindi restano inedite nella nostra lingua; né viene indicato il traduttore, mentre i testi originali sono dei suoi «soliti» Amade e Delanoë. Non sono forse canzoni eccelse ma, alla visione del film, servono a far capire l’approccio nuovo – almeno per noi – che Bécaud ci sbatte davanti con il suo stile interpretativo.

Per fare un altro «cattivo» esempio, e qui siamo già nel 1964, basterebbe guardare o ascoltare una canzone di Georges Brassens come «Il suffit de passer le pont» – tra l’altro una delle sue più semplici, più sentimentali, ma comunque fresca e originale – non nella proverbiale esecuzione asciutta di Brassens, completamente priva di retorica, bensì nell’interpretazione giuliva di Gigliola Cinquetti, nella versione italiana di Daniele Pace. Della quale vorrei solo far notare come il verso «lasciami tenere la tua sottana» fosse troppo ardito per essere cantato in Italia, per cui Gigliola si limitava più prudentemente a chiedere al suo compagno di tenerle non la sottana ma semplicemente… «la mano».

Su alcuni cantautori italiani che tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta si stanno formando con maggiore consapevolezza, spessore culturale, spregiudicatezza anticonformistica, una certa canzone francese si impone invece con più forza e molto più direttamente. Questa élite, questa nouvelle vague (ancora francesismi…) recupera per esempio (quindi con molto ritardo) i valori dell’esistenzialismo (peraltro più nello stile di vita che nei contenuti filosofici) e della nobiltà letteraria che anche in canzone la Francia ha sempre praticato. A ispirare questi nostri nuovi autori (Paoli, Tenco, Gaber, Endrigo, Lauzi, De André, Ciampi…) sono soprattutto alcuni chansonnier di qualità eccelsa, di uno spessore sia poetico che civile sconvolgenti per le nostre abitudini: lo stesso Brassens, Boris Vian, Charles Aznavour, Marcel Mouloudji, Jacques Brel, Léo Ferré…

Vediamo alcuni esempi di canzoni italiane che sono state «attratte» da corrispondenti modelli francesi. Sia chiaro che non sto commettendo nessun delitto di «lesa maestà» nei confronti di questi artisti italiani, anch’essi grandi. È assolutamente normale mettere nella propria opera gli echi delle fonti più interessanti a cui ci si è abbeverati, anzi mi sembra segno di sensibilità e intelligenza. A volte si tratta semplicemente di un gusto, un tono, un clima che genericamente si attinge e si riproduce, magari con qualche dettaglio molto simile all’originale che si può facilmente smascherare. Restiamo con Brassens, il cui epigono più famoso in Italia è sicuramente Fabrizio De André.

Leggiamo due testi di Brassens, a cui mi piace accompagnare le rispettive traduzioni di un nostro poeta contemporaneo, Maurizio Cucchi: «Hécatombe» e «Brave Margot» (entrambe del 1952: oltre sessant’anni fa!). E poi mi si dica se non ci sono qui vari elementi che ricorrono in una delle più amate canzoni di Fabrizio, «Bocca di Rosa», che esce nel 1967.

«Hécatombe» (Georges Brassens)

Au marché de Briv’-la-Gaillarde
A propos de bottes d’oignons
Quelques douzaines de gaillardes
Se crêpaient un jour le chignon
A pied, à cheval, en voiture
Les gendarmes mal inspirés
Vinrent pour tenter l’aventure
D’interrompre l’échauffourée

Or, sous tous les cieux sans vergogne
C’est un usag’ bien établi
Dès qu’il s’agit d’rosser les cognes
Tout le monde se réconcilie
Ces furies perdant tout’ mesure
Se ruèrent sur les guignols
Et donnèrent je vous l’assure
Un spectacle assez croquignol

En voyant ces braves pandores
Etre à deux doigts de succomber
Moi, j’bichais car je les adore
Sous la forme de macchabées
De la mansarde où je réside
J’exitais les farouches bras
Des mégères gendarmicides
En criant: «Hip, hip, hip, hourra!»

Frénétiqu’ l’un’ d’elles attache
Le vieux maréchal des logis
Et lui fait crier: «Mort aux vaches,
Mort aux lois, vive l’anarchie!»
Une autre fourre avec rudesse
Le crâne d’un de ses lourdauds
Entre ses gigantesques fesses
Qu’elle serre comme un étau

La plus grasse de ses femelles
Ouvrant son corsage dilaté
Matraque à grand coup de mamelles
Ceux qui passent à sa portée
Ils tombent, tombent, tombent, tombent
Et s’lon les avis compétents
Il paraît que cette hécatombe
Fut la plus bell’ de tous les temps

Jugeant enfin que leurs victimes
Avaient eu leur content de gnons
Ces furies comme outrage ultime
En retournant à leurs oignons
Ces furies à peine si j’ose
Le dire tellement c’est bas
Leur auraient mêm’ coupé les choses
Par bonheur ils n’en avait pas
Leur auraient mêm’ coupé les choses
Par bonheur ils n’en avait pas

«Ecatombe» (traduzione di Maurizio Cucchi)

Al mercato di Brive-la-Gaillarde
Per una questione di cipolle
Qualche dozzina di tipe gagliarde
Se le dava di santa ragione.

A piedi, in macchina, a cavallo
I gendarmi, nel loro candore,
Si cimentarono nell’avventura
Di mettere fine a quel furore.

Ora, dovunque, senza vergogna,
È un’abitudine consolidata:
Coi piedipiatti da menare
Tutti smettono di litigare.

Quelle furie, senza misura,
Si avventarono sui poliziotti,
E allestirono, ve lo assicuro,
Uno spettacolo dei più ghiotti.

Una di loro, con frenesia,
Becca il sergente di polizia
E gli fa urlare: «Sbirri fetenti,
Morte alla legge, viva l’anarchia!»

Un’altra ficca rudemente
Il cranio di un deficiente
Tra le sue chiappe gigantesche
E se lo stringe con morse pazzesche.

La ragazza più enorme di tutte,
Aprendo il corpetto esagerato,
Manganella a colpi di tette
I piedipiatti alla sua portata.

Cadono, cadono, cadono, cadono…
E, a quanto gli esperti assicurano,
Questa ecatombe, nella sua gloria,
Fu la più bella di tutta la storia.

Pensando infine che le vittime
Si fossero presa una bella lezione,
Se ne tornarono pacificate
Alle cipolle abbandonate.

Cercando un estremo gesto oltraggioso,
Tra quelle furie ce ne fu una
Che disse: tagliamogli le cose.
Ma non le avevano, per loro fortuna.

«Brave Margot» (Georges Brassens)

Margoton la jeune bergère
Trouvant dans l’herbe un petit chat
Qui venait de perdre sa mère
L’adopta
Elle entrouvre sa collerette
Et le couche contre son sein
C’était tout c’quelle avait pauvrette
Comm’ coussin
Le chat la prenant pour sa mère
Se mit à téter tout de go
Emue, Margot le laissa faire
Brav’ Margot
Un croquant passant à la ronde
Trouvant le tableau peu commun
S’en alla le dire à tout l’monde
Et le lendemain

Quand Margot dégrafait son corsage
Pour donner la gougoutte à son chat
Tous les gars, tous les gars du village
Etaient là, la la la la la la
Etaient là, la la la la la
Et Margot qu’était simple et très sage
Présumait qu’c’était pour voir son chat
Qu’tous les gars, tous les gars du village
Etaient là, la la la la la la
Etaient là, la la la la la

L’maître d’école et ses potaches
Le mair’, le bedeau, le bougnat
Négligeaient carrément leur tâche
Pour voir ça
Le facteur d’ordinair’ si preste
Pour voir ça, n’distribuait plus
Les lettres que personne au reste
N’aurait lues
Pour voir ça, Dieu le leur pardonne
Les enfants de cœur au milieu
Du Saint Sacrifice abandonnent
Le saint lieu
Les gendarmes, mêm’ mes gendarmes
Qui sont par natur’ si ballots
Se laissaient toucher par les charmes
Du joli tableau

Quand Margot dégrafait son corsage
Pour donner la gougoutte à son chat
Tous les gars, tous les gars du village
Etaient là, la la la la la la
Etaient là, la la la la la
Et Margot qu’était simple et très sage
Présumait qu’c’était pour voir son chat
Qu’tous les gars, tous les gars du village
Etaient là, la la la la la la
Etaient là, la la la la la

Mais les autr’s femmes de la commune
Privées d’leurs époux, d’leurs galants
Accumulèrent la rancune
Patiemment
Puis un jour ivres de colère
Elles s’armèrent de bâtons
Et farouches elles immolèrent
Le chaton
La bergère après bien des larmes
Pour s’consoler prit un mari
Et ne dévoila plus ses charmes
Que pour lui
Le temps passa sur les mémoires
On oublia l’évènement
Seul des vieux racontent encore
A leurs p’tits enfants

Quand Margot dégrafait son corsage
Pour donner la gougoutte à son chat
Tous les gars, tous les gars du village
Etaient là, la la la la la la
Etaient là, la la la la la
Et Margot qu’était simple et très sage
Présumait qu’c’était pour voir son chat
Qu’tous les gars, tous les gars du village
Etaient là, la la la la la la
Etaient là, la la la la la

«Brava Margot» (traduzione di Maurizio Cucchi)

Margot, giovane pastorella,
trovò nell’erba un gattino
Rimasto senza mamma quel mattino
E lo adottò…

Apre allora la camicetta
E se lo adagia contro il seno.
Non aveva, per il micetto,
Altro cuscino.

Lui la prese per la sua mamma
E si mise di gusto a poppare.
Si commosse Margot, poverina,
E lasciò fare.

Brava Margot!
Un pitocco faceva la ronda,
Vide la scena un poco stramba
E andò in giro a dirlo ai paesani,
Così l’indomani…

Quando Margot si slacciava il corpetto
Regalando al gattino il goccetto,
C’erano i bulli del paese.
E Margot, semplice e senza pretese,
Pensava che fosse per il gatto
Che erano lì, i ganzi del paese.

Il maestro con i suoi scolari,
Con il sindaco e il sacrestano,
Trascuravano il dovere, per vedere…
Il postino, di solito svelto,
Per vedere non portò più
Le lettere che nessuno del resto
Avrebbe letto più.

Per vedere (che Dio li perdoni!)
I chierichetti, sul più bello,
Abbandonarono le funzioni
Come fringuelli…
I gendarmi, persino i gendarmi,
Che di natura sono scemi.
Furono presi dai dettagli
Della morbida scena…

Quando Margot si slacciava il corpetto
Regalando al gattino il goccetto,
C’erano i bulli del paese.
E Margot, semplice e senza pretese,
Pensava che fosse per il gatto
Che erano lì, i ganzi del paese.

Però le donne del paese,
Senza gli sposi, senza gli amanti,
Accumularono la rabbia
Assai pazienti.
Finché un giorno incollerite,
E di bastoni bene armate,
Immolarono orrendamente
Quel gattino innocente.

Margot, dopo aver molto patito,
Per consolarsi prese un marito
E svelò tutte le sue grazie
Solo a lui.
Finché il tempo velò la memoria
E il fatto fu dimenticato.
Solo dei vecchi raccontano ancora
Ai loro nipoti…

Quando Margot si slacciava il corpetto
Regalando al gattino il goccetto,
C’erano i bulli del paese.
E Margot, semplice e senza pretese,
Pensava che fosse per il gatto
Che erano lì, i ganzi del paese.

«Bocca di Rosa» (Fabrizio De André)

La chiamavano Bocca di Rosa,
metteva l’amore metteva l’amore…
la chiamavano Bocca di Rosa,
metteva l’amore sopra ogni cosa.
Appena scese alla stazione
del paesino di Sant’Ilario
tutti si accorsero con uno sguardo
che non si trattava di un missionario.
C’è chi l’amore lo fa per noia,
chi se lo sceglie per professione.
Bocca di Rosa né l’uno né l’altro,
lei lo faceva per passione.
Ma la passione spesso conduce
a soddisfare le proprie voglie
senza indagare se il concupito
ha il cuore libero oppure ha moglie.
E fu così che da un giorno all’altro
Bocca di Rosa si tirò addosso
l’ira funesta delle cagnette
a cui aveva sottratto l’osso.
Ma le comari di un paesino
non brillano certo d’iniziativa,
le contromisure fino al quel punto
si limitavano all’invettiva.
Si sa che la gente dà buoni consigli
sentendosi come Gesù nel tempio…
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio.
Così una vecchia mai stata moglie
senza mai figli, senza più voglie
si prese la briga e di certo il gusto
di dare a tutte il consiglio giusto.
E rivolgendosi alle cornute
le apostrofò con parole acute:
«Il furto d’amore sarà punito – disse –
dall’ordine costituito».
E quelle andarono dal commissario
e dissero senza parafrasare:
«Quella schifosa ha già troppi clienti,
più di un consorzio alimentare».
Ed arrivarono quattro gendarmi
con i pennacchi con i pennacchi
ed arrivarono quattro gendarmi
con i pennacchi e con le armi.
Il cuore tenero non è una dote
di cui sian colmi i carabinieri
ma quella volta a prendere il treno
l’accompagnarono malvolentieri.
Alla stazione c’erano tutti,
dal commissario al sagrestano,
alla stazione c’erano tutti
con gli occhi rossi e il cappello in mano,
a salutare chi per un poco
senza pretese, senza pretese
a salutare chi per un poco
portò l’amore nel paese.
C’era un cartello giallo
con una scritta nera, diceva:
«Addio Bocca di Rosa,

con te se ne parte la primavera».
Ma una notizia un po’ originale
non ha bisogno di alcun giornale,
come una freccia dall’arco scocca
vola veloce di bocca in bocca.
E alla stazione successiva
molta più gente di quando partiva…
chi manda un bacio, chi getta un fiore,
chi si prenota per due ore.
Persino il parroco che non disprezza
fra un miserere e un’estrema unzione
il bene effimero della bellezza
la vuole accanto in processione.
E con la Vergine in prima fila
e Bocca di Rosa poco lontano
si porta a spasso per il paese
l’amore sacro e l’amor profano.

De André richiama molto spesso Brassens – e «Bocca di Rosa» è esemplare in tal senso – per questo taglio epico e corale applicato però a situazioni plebee e irriverenti, su ritmi molto rapidi e travolgenti, com’è il caso di «Hécatombe», questa storia di un’insurrezione di massaie al mercato in cui vengono picchiati di santa ragione dei poliziotti. E in «Brave Margot» ci sono riferimenti anche molto palesi, là dove Margot si slaccia il corpetto per dare il latte a una gattina, e persino i gendarmi «che di natura sono così chiusi» (in «Bocca di Rosa»: «il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i carabinieri») si lasciano commuovere dal fascino di quel quadretto; finché, come in «Bocca di Rosa», tutte le altre donne del villaggio si ingelosiscono di questa donna che fa spettacolo di sé coi maschi e, pazze di rabbia, si armano di bastoni e ammazzano il gattino.

Ma poi non si può dimenticare che Fabrizio De André riprende Brassens, tra le varie cose, nel modo di cantare: un canto, come già si diceva, opposto a moduli del belcanto in uso in Italia fino ad allora (e anche oggi, a dire il vero), sempre controllato, levigato, molto piano, compassato, perfettamente scandito, che procede lineare e inesorabile, con dizione «enunciativa», austera, apparentemente neutra, priva di emotività ma proprio per questo seduttiva a ogni minima variazione e inflessione; una voce, quella di Fabrizio, grave ma nitidissima, riso­nante di echi, che solo ogni tanto si altera; a cui basta pochissimo, un ritardo impercettibile, un accenno di raucedine, per riempire di armonici, di risonanze, ciò che sta raccontando o evocando. Una voce nuda che esal­ta la parola nuda. E poiché il modello è Brassens, sentiamo che cosa lo stesso Brassens dice della propria voce:

Non è una voce da cantante, la mia. Ha un registro limitato, non posso scendere troppo né fare degli acuti. È una voce non affinata dallo studio: naturale. Se esiste uno stile Brassens, esso è in questa assenza di ricerca. Bisogna che quando racconto «Il gorilla» o la «Marcia nuziale» [guarda caso, cita proprio due canzoni tradotte e cantate da De André] il pubblico abbia l’impressione che un amico sia venuto a fargli sentire la sua ultima creazione. Non voglio essere un divo, voglio essere un amico. (André Sève, Brassens: toute une vie pour la chanson. Éditions du Centurion, Paris, 1975. Traduzione di Laura Frausin Guarino e Leonella Prato)

Se questo è lo «stile Brassens», questo è anche lo «stile De André». A volte sono delle strutture formali che vengono riprese dalla Francia. Un paio di esempi. Sempre di De André, «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers» (1963) si rifà, com’è noto, a un genere preciso, quello della «pastorella» o «pastourelle» francese, propria dei trovatori provenzali e poi dei trovieri (secoli XII–XIII).

La formula del «crescendo» si ritrova, sicuramente mutuata da Jacques Brel, in Luigi Tenco («Angela», «Io sì»), in Sergio Endrigo («Viva Maddalena»), spesso in Giorgio Gaber, e tanti altri. Il «crescendo» – ovvero l’elevazione progressiva e contestuale dell’intensità, della velocità e della tensione, portata al culmine massimo con andamento frenetico o solenne a seconda dei casi – è una scelta musicale che sa di «moto perpetuo», di musica rivolta al cielo, proiettata verso l’alto, come le guglie delle cattedrali nordiche cantate appunto da Brel. È una formula pressoché infallibile e perciò frequentemente ripresa anche in Italia, forse abusata, in Brel persino insistita con un po’ di autoironia; ma Brel ne è proprio uno specialista: a questo procedimento dona un fascino magico, ipnotico, incantatorio, persino erotico. Il conflitto musicale tra forte e piano, tra pieno e vuoto, è allegoria di vita e di morte, di ricerca e di paura, di avventura e di decadimento.

In particolare Giorgio Gaber, che avvia la sua gloriosa esperienza di teatro-canzone plasmandola in gran misura proprio sull’esperienza di Brel, segna il suo nuovo corso con una canzone, «Com’è bella la città» (1969), che non può non far pensare a quel capolavoro di Brel che è «La valse à mille temps» (1959), dove il «crescendo» raggiunge velocità vertiginose e acrobatiche. «La valse à mille temps», poi, è una canzone al quadrato, perché è un prodigio di identificazione (non solo formale) fra testo e musica: dove la creazione musicale è metafora della crescita d’amore raccontata nel testo, e quindi diventa di per sé «contenuto».

Un accostamento invece testuale tra Brel e Gaber lo voglio fare subito per la straordinaria bellezza di entrambe le canzoni: la celebre «Chanson des vieux amants» (1967), qui di seguito nella versione originale e poi in quella italiana di Duilio Del Prete, e «Ora che non son più innamorato» di Gaber (1970):

«La chanson des vieux amants» (Brel-Jouannest)

Bien sûr, nous eûmes des orages
Vingt ans d’amour, c’est l’amour fol
Mille fois tu pris ton bagage
Mille fois je pris mon envol
Et chaque meuble se souvient
Dans cette chambre sans berceau
Des éclats des vieilles tempêtes
Plus rien ne ressemblait à rien
Tu avais perdu le goût de l’eau
Et moi celui de la conquête

Mais mon amour
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l’aube claire jusqu’à la fin du jour
Je t’aime encore tu sais je t’aime

Moi, je sais tous tes sortilèges
Tu sais tous mes envoûtements
Tu m’as gardé de pièges en pièges
Je t’ai perdue de temps en temps
Bien sûr tu pris quelques amants
Il fallait bien passer le temps
Il faut bien que le corps exulte
Finalement finalement
Il nous fallut bien du talent
Pour être vieux sans être adultes

Oh, mon amour
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l’aube claire jusqu’à la fin du jour
Je t’aime encore, tu sais, je t’aime

Et plus le temps nous fait cortège
Et plus le temps nous fait tourment
Mais n’est-ce pas le pire piège
Que vivre en paix pour des amants
Bien sûr tu pleures un peu moins tôt
Je me déchire un peu plus tard
Nous protégeons moins nos mystères
On laisse moins faire le hasard
On se méfie du fil de l’eau
Mais c’est toujours la tendre guerre

Oh, mon amour…
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l’aube claire jusqu’à la fin du jour
Je t’aime encore tu sais je t’aime

«La canzone dei vecchi amanti» (versione italiana di Duilio Del Prete)

Certo ci fu qualche tempesta,
Vent’anni è amare alla follia;
Mille volte dicesti basta,
Mille volte me ne andai via.
Ma ogni cosa si ricorda
In questa stanza senza culla:
I lampi dei vecchi contrasti…
Non c’era più una cosa giusta,
Avevi perso il tuo calore,
E io la febbre di conquista.

Oh, mio amore,
Mio dolce, mio meraviglioso amore,
Dall’alba chiara finché il giorno muore,
Io t’amo ancora, sai, ti amo.

So tutto delle tue magie
E tu della mia intimità.
Sapevo delle tue bugie
E tu delle mie tristi viltà.
So che hai avuto degli amanti,
Bisogna pur tirare avanti,
Bisogna pur che il corpo esulti.
Ma c’è voluto tanto cuore
Per riuscirci ad invecchiare
Senza mai diventare adulti.

Oh, mio amore,
Mio dolce, mio meraviglioso amore,
Dall’alba chiara finché il giorno muore
Io t’amo ancora, sai, ti amo.

E più ci fanno guardia d’onore,
Più gli anni angosciano la via.
Ma c’è forse un male peggiore
Che amarsi con monotonia?

Ora piangi con meno zelo,
Io mi scateno molto dopo,
Non abbiamo quasi più misteri.
Lasciamo un po’ il settimo cielo,
Scendiamo a patti con la terra,
Però è la stessa dolce guerra.

Oh, mio amore,
Mio dolce, mio meraviglioso amore,
Dall’alba chiara finché il giorno muore
Io ti amo ancora, sai, ti amo.

«Ora che non son più innamorato» (Gaber-Luporini)

Ora che non son più innamorato
ora che non sei più innamorata…

Ora che non ho più quelle emozioni
che non corro più a casa per svegliarti
nel pieno della notte
ora che tutto si svolge di mattina
quando a letto mi porti contro voglia
un po’ di caffellatte.
Gli occhi gonfi e stanchi, lunghe e faticose discussioni
forse niente di sincero
sempre mezza nuda, senza più pudore
senza più nessun mistero.

Com’è tutto più giusto, com’è tutto più vero
come ha più senso, come ha più valore questo nostro…

Ora che non c’è niente da scoprire
non abbiamo nemmeno una gran voglia
di fare l’amore
ora che ho quasi un senso di fastidio
se sento le tue braccia, le tue gambe
se ti sento respirare.
E quando sei ammalata con la fronte calda, ti lamenti
sì per farti compatire
mi alzo un po’ assonnato, cerco un’aspirina, ti accarezzo
fingo di soffrire.

Com’è tutto più giusto, com’è tutto più vero
come ha più senso, come ha più valore questo nostro…

Ora che noi ci siamo anche traditi
e che sono successe tante cose
che non potevo immaginare
quanto abbiamo sofferto e faticato
per arrivare a capire che domani
ci potremmo anche lasciare.
Quanta resistenza e quanta esagerata insofferenza
qualche volta anche per niente
e questa strana unione che ogni giorno si trasforma lentamente.

Com’è tutto più giusto, com’è tutto più vero
come ha più senso, come ha più valore questo nostro…

Ora che non son più innamorato
ora che non sei più innamorata…

Ora che non ho più quelle emozioni,
che non corro più a casa per svegliarti
nel pieno della notte,
ora che tutto si svolge di mattina
quando a letto mi porti controvoglia
un po’ di caffellatte….
gli occhi gonfi e stanchi, lunghe e faticose discussioni,
forse niente di sincero,
sempre mezza nuda, senza più pudore,
senza più nessun mistero…

Com’è tutto più giusto, com’è tutto più vero,
come ha più senso, come ha più valore questo nostro amore.

Ora che non c’è niente da scoprire
non abbiamo nemmeno una gran voglia
di fare l’amore,
ora che ho quasi un senso di fastidio
se sento le tue braccia, le tue gambe,
se ti sento respirare…

e quando sei ammalata con la fronte calda, ti lamenti
sì, per farti compatire…
mi alzo un po’ assonnato, cerco un’aspirina, ti accarezzo,
fingo di soffrire…

com’è tutto più giusto, com’è tutto più vero,
come ha più senso, come ha più valore questo nostro amore.

Ora che ci siamo anche traditi
e che sono successe tante cose
che non potevo immaginare,
quanto abbiamo sofferto e faticato
per arrivare a capire che domani
ci potremmo anche lasciare…
quanta resistenza e quanta esagerata insofferenza,
qualche volta anche per niente,
e questa strana unione che ogni giorno si trasforma lentamente…

Com’è tutto più giusto, com’è tutto più vero,
come ha più senso, come ha più valore questo nostro amore.

Naturalmente il modo più diretto di trasportare in Italia una canzone è quello di tradurre, operazione sempre difficile, che ha esiti alterni, ma almeno chiara e programmatica.

Vediamo tre forme diverse di traghettare in Italia un capolavoro francese, anche questo di Brel: «Le plat pays» nell’originale (1962) con la versione italiana di Duilio Del Prete; la trasposizione in Italia (non solo in italiano cioè…) di Herbert Pagani «Lombardia» (1965); e un’autonoma canzone di Dario Fo e Fiorenzo Carpi, «La brutta città» (1964), che ritengo proprio tenga conto dell’affine titolo breliano.

«Le plat pays» (Jacques Brel)

Avec la mer du Nord pour dernier terrain vague
Et des vagues de dunes pour arrêter les vagues
Et de vagues rochers que les marées dépassent
Et qui ont à jamais le cœur à marée basse
Avec infiniment de brumes à venir
Avec le vent de l’est écoutez-le tenir
Le plat pays qui est le mien

Avec des cathédrales pour uniques montagnes
Et de noirs clochers comme mâts de cocagne
Où des diables en pierre décrochent les nuages
Avec le fil des jours pour unique voyage
Et des chemins de pluie pour unique bonsoir
Avec le vent d’ouest écoutez-le vouloir
Le plat pays qui est le mien

Avec un ciel si bas qu’un canal s’est perdu
Avec un ciel si bas qu’il fait l’humilité
Avec un ciel si gris qu’un canal s’est pendu
Avec un ciel si gris qu’il faut lui pardonner
Avec le vent du nord qui vient s’écarteler
Avec le vent du nord écoutez-le craquer
Le plat pays qui est le mien

Avec de l’Italie qui descendrait l’Escaut
Avec Frida la Blonde quand elle devient Margot
Quand les fils de novembre nous reviennent en mai
Quand la plaine est fumante et tremble sous juillet
Quand le vent est au rire quand le vent est au blé
Quand le vent est au sud écoutez-le chanter
Le plat pays qui est le mien.

«La bassa landa» (versione italiana di Duilio Del Prete)

Con il Mare del Nord come estremo orizzonte
E un deserto di dune per placare le onde,
Con delle rocce attente che il tramonto ricrea,
Sole nella tristezza della bassa marea,
E coll’eterno amore di un’eterna foschia,
Con il vento del Nord, guardatela lottare,
La bassa landa che è la mia.

Con delle cattedrali come uniche montagne
E guglie nere come alberi di cuccagna
E chimere di marmo che si artigliano al cielo,
Con l’odissea del tempo come ultimo volo
E dei rondò di pioggia come sole frontiere,
Con il vento dell’Est, ascoltala volere,
La bassa landa che è la mia.

Con un cielo di piombo che fonde nei canali,
Un cielo tanto basso da tarpare le ali,
Un cielo così basso da prenderti per mano,
Un cielo così triste da chiederti perdono,
Con il vento dell’Ovest che si squarcia e che freme,
Con il vento dell’Ovest, ascolta come geme,
La bassa landa che è la mia.

Con la prima rugiada che sussurra all’aurora
E col primo germoglio che lievita in pianura,
Quando Frida scompare e fiorisce Margherita,
Un’estate di vita solo per farsi amare,
Quando il sole del grano torna a fare il giullare,
Con il vento del Sud, sentitela cantare,
La bassa landa che è la mia.

«Lombardia» (Pagani-Brel)

Qui l’arpa della pioggia per mesi suonerà
ed un’infinità di nebbia scenderà
e vedrai coprirà tutto intorno a noi
e annegherà il tuo cuore anche se non vuoi
perché d’autunno piove qui e non smette mai…
Se vieni su da me, vedrai, ti abituerai
in Lombardia che è casa mia.

Vedrai la cattedrale che sembra una montagna
con mille guglie bianche che la luna bagna
e dei diavoli in pietra che sputano alle stelle
e che graffiano il cielo con gesti di zitelle,
son secoli che fanno le stesse smorfie ormai…
Se vieni su da me, vedrai, ti abituerai
in Lombardia che è casa mia.

Qui il cielo è così grigio che sembra venga giù,
qui il cielo è così basso che insegna l’umiltà,
è così grigio che il Naviglio annegherà,
è così basso che il Naviglio non c’è più,
il vento qui si invita ai funerali, sai…
Se vieni su da me, vedrai, ti abituerai
in Lombardia che è casa mia.

Ma quando il primo fiore dal fango nascerà
e fra le ciminiere il pioppo canterà
capirai che a novembre noi dobbiamo pagare
quel che maggio promette e giugno ci può dare,
fra i grattacieli e tram l’estate scoppierà…
Se vieni su da me, vedrai, ti piacerà
la Lombardia che è casa mia.

«La brutta città» (Fo-Carpi)

Già sugli ultimi prati incontri dei tubi,
poi sorpassi tralicci, poi tubi
e tralicci che sorreggono muri
truccati da case.

Ed un albero solo in mezzo a dei cani
che fanno la fila per fare pipì.
È un paese cresciuto in periferia,
questa brutta città che è la mia.

Non esiste pianura più piatta di questa
dove il vento ha paura di sporcarsi di nebbia,
dov’è un duomo pazzesco coperto di pizzi,
è una cava di marmo vestita da sposa.

Il Naviglio sta fermo
e soffoca i pesci,
solo in sogno si muove
e triste va via
dalla brutta città
che è la mia.

Se però le ragazze ti vengono incontro
tutta l’aria si muove e pare sia vento
e ti tieni il cappello, ma il cuore non puoi.
La domenica insieme si va nella piazza,
io la tengo alla vita, corriam sul sagrato,
spaventiamo i colombi che volano via
sulla brutta città che è la mia.

A volte le citazioni, da parte degli italiani, sono esplicite (Giorgio Gaber cita «Les bourgeois» di Brel in «I borghesi»; Paolo Conte omaggia dichiaratamente «La première fille» di Brassens con «L’ultima donna»; Roberto Vecchioni cerca di citare «Il tuo stile» di Léo Ferré intitolando un suo pezzo «Il tuo culo e il tuo cuore»). Ma a volte la citazione è oggettivamente un po’ più subdola e ambigua, perché riproduce molte cose… senza dichiararne la fonte.

Facciamo alcuni esempi. Cominciamo da Brel. Ben tre canzoni di Tenco sembrano far riferimento a «Une île» di Brel (1961): «Io vorrei essere là» («…nella mia verde isola ad inventare un mondo di soli amici», registrata nel 1962 ma pubblicata per la prima volta nel 1966), «In qualche parte del mondo», «Ti ricorderai» (entrambe del 1961). Ammettiamo tuttavia che non a caso abbiamo detto «sembrano»: la pubblicazione pressoché contemporanea delle quattro canzoni può effettivamente far pensare anche a una semplice coincidenza.

In Guccini gli ubriachi che «sputano al cielo come se avessero di fronte l’universo» (da «Per quando è tardi», 1970) assomigliano molto ai marinai di «Amsterdam» (1964), canzone che tra l’altro Guccini cantava in una sua traduzione pur se rimasta inedita.

«Non c’è più l’America», un provino di Piero Ciampi del 1977 (pubblicato postumo nel 1990), ha un titolo curiosamente uguale al verso «il n’y a plus d’Amerique» nella contemporanea «Voir un ami pleurer» di Brel (1977).

Il memorabile verso di Endrigo «E ti regalerò quel che resta della mia gioventù» (da «Io che amo solo te» 1962) sembra attinto dal verso di Brel «Ti offrirò il tempo che resta della gioventù» («La tendresse», 1959).

Non è di Endrigo ma era lui a cantarla la seguente «Ti amo», di Giorgio Calabrese e Gianfranco Reverberi (1964), che facciamo precedere dall’omologa «Je t’aime» di Brel (1961), anche nella traduzione italiana di Duilio Del Prete.

«Je t’aime» (Brel-Rauber)

Pour la rosée qui tremble au calice des fleurs
De n’être pas aimée et ressemble à ton cœur
Je t’aime
Pour le doigt de la pluie au clavecin de l’étang
Jouant page de lune et ressemble à ton chant
Je t’aime
Pour l’aube qui balance sur le fil d’horizon
Lumineuse et fragile et ressemble à ton front
Je t’aime

Pour l’aurore légère qu’un oiseau fait frémir
En la battant de l’aile et ressemble à ton rire
Je t’aime
Pour le jour qui se lève et dentelle le bois
Au point de la lumière et ressemble à ta joie
Je t’aime
Pour le jour qui revient d’une nuit sans amour
Et ressemble déjà, ressemble à ton retour
Je t’aime
Pour la porte qui s’ouvre, pour le cri qui jaillit
Ensemble de deux cœurs et ressemble à ce cri
Je t’aime
Je t’aime
Je t’aime

«Ti amo» (traduzione di Duilio Del Prete)

Per la rugiada nata
Al calice del fiore
Che vuol essere amata
E mi sembra il tuo cuore…
Io ti amo.

Per la mano di pioggia
Che all’arpa dello stagno
Suona raggi di luna
E che sembra il tuo canto…
Io ti amo.

Per l’alba che volteggia
Sul filo d’orizzonte
Luminosa e gentile
E sembra la tua fronte…
Io ti amo.

Per l’aurora leggera
Che un passero ha dischiuso
Sfiorandola con l’ala
E sembra il tuo sorriso…
Io ti amo.

Per il giorno che sorge
E cesella la natura
Col tocco della luce
E sembra la tua gioia…
Io ti amo.

Per il giorno che segue
La notte senza amore
E che viene a cantarmi
Che tu stai per tornare…
Io ti amo.

Per la porta che s’apre,
Per il grido sgorgato
Insieme da due cuori
E sembra questo grido…
Io ti amo.
Io ti amo.
Io ti amo.

«Ti amo» (Calabrese-Reverberi, dal repertorio di Sergio Endrigo)

Per avermi sorriso
in un triste mattino
e aver dato un colore alla vita,
ti amo.
Per avermi guardato
quando io ti cercavo
e volevo venirti vicino,
ti amo.
Per avermi parlato
quando un lungo silenzio
aspettava soltanto una voce,
ti amo.
Per aver accettato
un incerto domani,
per restare ad attenderlo insieme,
ti amo.
E perché non ho niente
per poter ricambiare
tutto il bene che ho avuto da te,
ti dedico tutto di me.
Con tutta la forza che ho
io ti amo,
ti amo,
ti amo.

Il caso più interessante è quello di Fabrizio De André, che in questi rimandi resta sempre ad altissimi livelli di qualità di fattura, a volte arrivando addirittura a superare i maestri. È proprio una delle sue peculiarità – che trovo positiva e intelligente – quella di essere sempre stato apertissimo a influssi e influenze culturali che venivano dall’esterno, dichiarandole o non dichiarandole. Certamente De André ha sempre assemblato le sue fonti e le sue citazioni in maniera assolutamente personale, con quei guizzi geniali, quei decisivi lampi di genio che fanno il capolavoro.

Nel suo concept-album Tutti morimmo a stento (1968), «La ballata degli impiccati» si ispira all’omonimo epitaffio (1462) di François Villon, dove segnatamente negli ultimi due versi si rispecchia proprio la «filosofia» di De André, là dove Villon dice: «Uomini, non schernite il nostro stato ma Dio pregate che ci voglia assolvere». Vale la pena ripercorrerne i rispettivi testi.

«Epitaffio» («Ballata degli impiccati») (Villon, traduzione di Emma Stojkovic Mazzariol)

Fratelli umani, che ancor vivi siete,
non abbiate per noi gelido il cuore,
ché, se pietà di noi miseri avete,
Dio vi darà più largo il suo favore.
Appesi cinque, sei, qui ci vedete:
la nostra carne, già troppo ingrassata,
è ormai da tempo divorata e guasta;
noi, ossa, andiamo in cenere e polvere.
Nessun rida del male che ci devasta,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

Se vi diciam fratelli, non dovete
averci a sdegno, pur se fummo uccisi
da giustizia. Ma tuttavia, sapete
che di buon senso molti sono privi.
Poiché siam morti, per noi ottenete
dal figlio della Vergine Celeste
che inaridita la grazia non resti,
e che ci salvi dall’orrenda folgore.
Morti siamo: nessuno ci molesti,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

La pioggia ci ha lavati e risciacquati,
e il sole ormai ridotti neri e secchi;
piche e corvi gli occhi ci hanno scavati,
e barba e ciglia strappate coi becchi.
Noi pace non abbiamo un sol momento:
di qua, di là, come si muta, il vento
senza posa a piacer suo ci fa volgere,
più forati da uccelli che ditali.
A noi dunque non siate mai uguali;
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

Gesù, che su tutti hai signoria,
fa’ che d’Inferno non siamo in balìa,
che debito non sia con lui da solvere.
Uomini, qui non v’ha scherno o ironia,
ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

«Ballata degli impiccati» (De André-Bentivoglio)

Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce.

L’urlo travolse il sole
l’aria divenne stretta
cristalli di parole
l’ultima bestemmia detta.

Prima che fosse finita
ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un’ora.

Poi scivolammo nel gelo
di una morte senza abbandono
recitando l’antico credo
di chi muore senza perdono.

Chi derise la nostra sconfitta
e l’estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.

Chi la terra ci sparse sull’ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch’egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino.

La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria.

Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.

Tutti morimmo a stento
ingoiando l’ultima voce,
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce.

L’urlo travolse il sole,
l’aria divenne stretta,
cristalli di parole,
l’ultima bestemmia detta.

Prima che fosse finita
ricordammo a chi vive ancora
che il prezzo fu la vita
per il male fatto in un’ora.

Poi scivolammo nel gelo
di una morte senza abbandono
recitando l’antico credo
di chi muore senza perdono.

Chi derise la nostra sconfitta
e l’estrema vergogna ed il modo,
soffocato da identica stretta,
impari a conoscere il nodo.

Chi la terra ci sparse sull’ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch’egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino.

La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria.

Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l’odore del sangue rappreso,
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.

«Valzer per un amore» (1964) è ispirata a un sonetto di Pierre de Ronsard: «Quand vous serez bien vieille» (1578). Ecco i due testi.

«Le temps s’en va» (Pierre de Ronsard, traduzione di Mario Praz)

Quando vecchia sarete, la sera, alla candela,
seduta presso il fuoco, dipanando e filando,
ricanterete le mie poesie, meravigliando:
Ronsard mi celebrava al tempo ch’ero bella.

Serva allor non avrete ch’ascolti tal novella,
vinta dalla fatica già mezzo sonnecchiando,
ch’al suono del mio nome non apra gli occhi alquanto,
e lodi il vostro nome ch’ebbe sì buona stella.

Io sarò sotto terra, spirto tra ignudi spirti,
prenderò il mio riposo sotto l’ombra dei mirti.
Voi presso il focolare, una vecchia incurvita,

l’amor mio e ’l fiero sprezzo vostro rimpiangerete,
Vivete, date ascolto, diman non attendete:
cogliete fin da oggi le rose della vita.

«Valzer per un amore» (De André-Marinuzzi)

Quando carica d’anni e di castità,
tra i ricordi e le illusioni
del bel tempo che non ritornerà,
troverai le mie canzoni,
nel sentirle ti meraviglierai
che qualcuno abbia lodato
le bellezze che allor più non avrai
e che avesti nel tempo passato.

Ma non ti servirà il ricordo,
non ti servirà
che per piangere il tuo rifiuto
del mio amore che non tornerà.
Ma non ti servirà più a niente,
non ti servirà
che per piangere sui tuoi occhi
che nessuno più canterà.

Vola il tempo, lo sai che vola e va,
forse non ce ne accorgiamo
ma più ancora del tempo che non ha età,
siamo noi che ce ne andiamo
e per questo ti dico amore, amore,
io t’attenderò ogni sera,
ma tu vieni, non aspettare ancora,
vieni adesso finché è primavera.

Vediamo più brevemente alcune altre «citazioni» in De André. Ne «La ballata dell’eroe» (1961) il soldato che «troppo lontano si spinse a cercare la verità» assomiglia ai soldati di una canzone di Aznavour che «sono partiti per cercare la verità troppo lontano» («L’amour et la guerre», un testo di Bernard Dimey musicato e cantato da Aznavour, 1961).

In «Père Noël et la petite fille» di Brassens (1958) c’è il verso «ti pose le mani sui fianchi» diventato famoso per la «Canzone di Marinella» (1964).

«Crepare di maggio, ci vuole tanto troppo coraggio» («La guerra di Piero», 1964) richiama «è duro morire in primavera» di Brel («Le moribond», 1961).

«Quando si muore si muore soli» («Il testamento», 1963) richiama un altro frammento di Brel: «davanti alla carogna ci si ritrova soli» («Seul», 1959).

L’incipit de «La città vecchia» (1965) è praticamente uguale a quello di una poesia di Jacques Prévert («Embrasse moi», 1946): «il sole del buon Dio non brilla dalle nostre parti perché ha già troppo da fare nei quartieri dei ricchi».

«Preghiera in gennaio» (1967) è ispirata a una poesia di Francis Jammes (1868-1938).

«Canzone del maggio» (1973) è, pur non dichiarata, una trasposizione di «Chacun de vous est concerné» di Dominique Grange, canzone studentesca del maggio ’68 a Parigi.

In «Verranno a chiederti del nostro amore» (1973), nei «fiori regalati a maggio e restituiti in novembre» si rispecchiano «i figli di novembre che ritroviamo a maggio» di «Le plat pays» (1962).

La «Canzone del padre» (1973) è simmetrica alla «Canzone dei vecchi amanti», ancora di Brel (1967): in De André «ogni notte lei mi si arrende più tardi», in Brel «je me déchire un peau plus tard».

Lasciando De André, un caso poco noto di «affinità» è «La gatta» di Gino Paoli (1960) il cui concetto è esattamente quello di «Auprès de mon arbre» di Brassens (1955).

«Auprès de mon arbre» (Brassens) – ultima strofa

J’avais un’ mansarde
Pour tout logement
Avec des lézardes
Sur le firmament
Je l’savais par cœur depuis
Et pour un baiser la course
J’emmenais mes bell’s de nuits
Faire un tour sur la grande ourse
J’habit’ plus d’ mansarde
Il peut désormais
Tomber des hall’bardes
Je m’en bats l’œil mais
Mais si quelqu’un monte aux cieux
Moins que moi j’y paie des prunes
Y a cent sept ans qui dit mieux,
Qu’ j’ai pas vu la lune

«Vicino al mio albero» (traduzione di Nanni Svampa e Mario Mascioli) – ultima strofa

Avevo una mansarda
come unico alloggio,
con delle crepe
che davano sul firmamento,
che conoscevo ormai a memoria;
e per un bacio di corsa
portavo le mie belle di notte
a fare un giro sull’Orsa Maggiore…

Non abito più in mansarda,
ormai può
piovere a dirotto,
me ne infischio, ma
ci scommetto che nessuno
è più infelice di me.

Sono centosette anni – chi offre di più? –
che non vedo la luna!

«La gatta» la conoscono tutti in Italia. Da una parte la mansarda di Brassens, dall’altra la soffitta di Paoli; da una parte le crepe sul firmamento, dall’altra la finestra sul cielo blu; da una parte il giro sull’Orsa Maggiore, dall’altra la stellina che scende vicina vicina. «J’habit’plus d’mansard», conclude sconsolato Brassens; «ora non abito più là», conclude, altrettanto sconsolato, Paoli…

Non è l’unico caso di rimandi paoliani alla canzone francese, alla quale peraltro anche lui si è sempre dichiarato debitore, e a Brassens in particolare. In «Stances à un cambrioleur» (1972) Brassens ammette che forse, se le proprie canzonette non gli avessero fruttato gloria e denaro, sarebbe finito a fare il mestiere del ladro («Si je n’avais pas dû rencontrer le succès / J’aurais tout comme toi, pu virer malhonnête / Je serais devenu ton complice, qui sait»). In «Cosa farò da grande» (1986) Paoli canta «il tizio che ha rubato stanotte in casa mia non ha portato via un dubbio che c’è in me: se non mi andava bene con le canzoni forse ero dalla sua parte e c’era un ladro in più». Per non parlare dell’armonica che fa il verso all’organo tanto in «Marcia nuziale» (1956) come nel «Cielo in una stanza» (1960)…

Un triplice caso che accomuna invece Paoli alla poesia di Prévert e alla canzone di Brel è il seguente, giocato su un tema curiosamente ricorrente in canzone: l’uomo che contempla la propria compagna dormiente. Ecco la documentazione: «Quand tu dors» di Prévert (1946), «Dors ma mie» di Brel (1958), «Dormi» di Paoli (1968).

«Quand tu dors» (Prévert, traduzione di Maurizio Cucchi e Giovanni Raboni)

Tu di notte dormi
e io invece ho l’insonnia.
Io ti vedo dormire,
questo mi fa soffrire.

Hai gli occhi chiusi, il lungo corpo disteso.
È buffo ma tutto questo mi fa piangere,
poi d’improvviso eccoti sorridere,
ridi di gusto mentre dormi.

Ma dove sei in quel momento?
Per dove sei partita, mi domando.
Magari con un altro uomo,
molto lontano e in un altro Paese
per ridere di me insieme a lui.

Tu di notte dormi
e io invece ho l’insonnia.
Io ti vedo dormire,
questo mi fa soffrire.

Quando tu dormi non so se mi ami,
sei qui con me eppure sei distante.
Tu tutta nuda, io mi aggrappo a te
ma è come se fossi lontano,
eppure sento il tuo cuore che batte
ma non so se batte per me,
non so più niente, non ne so più niente,
vorrei che il tuo cuore non battesse più
se un giorno tu non dovessi più amarmi.

Tu di notte sogni
e io invece ho l’insonnia.
Io ti vedo dormire,
questo mi fa soffrire.

Tutte le notti io piango tutta la notte,
e tu sogni e tu sorridi
ma tutto ciò non può durare,
certo una notte io ti ucciderò
e i tuoi sogni allora finiranno
e poiché anch’io mi ucciderò
anche la mia insonnia potrà avere fine
e i nostri due cadaveri di nuovo assieme
dormiranno nel letto nuziale.

Tu di notte sogni
e io invece ho l’insonnia.
Io ti vedo sognare
e questo mi fa piangere.

Ecco il giorno e subito ti svegli
e proprio a me sorridi
sorridi con il sole
e io non penso più alla notte
dici quelle parole, sempre quelle:

«Hai passato una buona notte?»
e io come sempre rispondo
«Sì mia cara, ho dormito bene
e ti ho sognato come ogni notte».

«Dors ma mie» (Brel-Rauber, traduzione di Duilio Del Prete)

Dormi, cara,
Fuori la notte è nera,
Dormi, mia buona sera.
Dormi, cara,
Fine dell’avventura,
Dormi, mia buona sera.
Sopra i fiori che chiudono gli occhioni
Piange una lieve pioggia
E il passero che canterà l’aurora
Dorme e sogna ancora.
Così verrà domani,
Sarò di nuovo solo
Perché mi avrai perduto
Col tuo volermi troppo,
Perché mi avrai sprecato
Col voler costruire
Una fortuna eterna
Noiosa da morire
Invece d’accostarti
A me semplicemente,
Al mio desiderarti
Per la tua primavera,
Perché quelle che amiamo
Non capiranno mai
Di essere ogni volta
Un ultimo giardino
O l’ultima fortuna
Di un’ultima sorpresa
O l’ultima partenza
Con l’ultimo veliero.
Dormi, cara,
Fuori la notte è nera,
Dormi, mia buona sera.
Dormi, cara, finita è l’avventura.
Sogna, cara. Vado via.

«Dormi» (Paoli)

Dormi tra le mie braccia, amore, dormi,
quando il tuo viso trova pace
e il tuo respiro si fa lieve.
Dormi, nessuna mano può sfiorarti
e nessun altro può vederti
e così sei soltanto mia.
Ma poi non so in che mondo sei andata,
non so perché sorridi piano,
non so se mormori il mio nome.
Dormi, non lasciarmi troppo indietro,
vorrei dormire nel tuo cuore
e respirare insieme a te.
Dormi amore, dormi amore,
dormi amore, dormi.

E come non pensare che una vecchia bella canzone di Paoli, «Gli innamorati sono sempre soli» (1961), sia debitrice di «Les enfants qui s’aiment» (1946), anche questa di Prévert?

«Les enfants qui s’aiment» (Prévert, traduzione di Maurizio Cucchi e Giovanni Raboni)

I ragazzi che si amano si baciano
in piedi contro le porte della notte.
I passanti che passano li segnano a dito,
ma i ragazzi che si amano
non ci sono per nessuno.
E se qualcosa trema nella notte
non sono loro ma la loro ombra
per far rabbia ai passanti,
per far rabbia disprezzo invidia riso.
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno,
sono altro, lontano, più lontano della notte,
più in alto del giorno
nella luce accecante del loro primo amore.

«Gli innamorati sono sempre soli» (Paoli)

Gli innamorati sono sempre soli,
soli sulla strada, soli sulla luna.
Ogni panchina è la loro casa,
ogni stella in cielo un ricordo d’amore.

Gli altri, che non sanno…
gli altri, che non ricordano…
gli altri non capiscono
non capiscono
non sorridono.

E voi amatevi davanti a tutto il mondo
perché state tranquilli… che siete voi
voi gli unici padroni
padroni del mondo.

Ci sono casi-limite con cui si arriva al plagio, in quanto la «sovrapposizione» non è dichiarata… Fausto Amodei, delizioso personaggio che ha sempre esplicitamente dichiarato di aver avuto Brassens come modello, non ha avuto nessuna difficoltà a riconoscere a posteriori, col sorriso sulle labbra, di aver… «copiato» un brano di Brassens senza accreditarglielo al momento dell’incisione. Ecco la prova: da «La complainte des filles de joie» (1965) – qui prima in originale, poi nella versione italiana di Nanni Svampa e Mario Mascioli – alla sua «Le tristezze di una donnina allegra» (1972).

«La complainte des filles de joie» (Brassens)

Bien que ces vaches de bourgeois
Les appell’nt des filles de joie
C’est pas tous les jours qu’ell’s rigolent
Parole, parole
C’est pas tous les jours qu’elles rigolent

Car, même avec des pieds de grues
Fair’ les cents pas le long des rues
C’est fatigant pour les guibolles
Parole, parole
C’est fatigant pour les guibolles

Non seulement ell’s ont des cors
Des œils-de-perdrix, mais encor
C’est fou ce qu’ell’s usent de grolles
Parole, parole
C’est fou ce qu’ell’s usent de grolles

Y a des clients, y a des salauds
Qui se trempent jamais dans l’eau
Faut pourtant qu’elles les cajolent
Parole, parole
Faut pourtant qu’elles les cajolent

Qu’ell’s leur fassent la courte échelle
Pour monter au septième ciel
Les sous, croyez pas qu’ell’s les volent
Parole, parole
Les sous, croyez pas qu’ell’s les volent

Ell’s sont méprisées du public
Ell’s sont bousculées par les flics
Et menacées de la vérole
Parole, parole
Et menacées de la vérole

Bien qu’tout’ la vie ell’s fass’nt l’amour
Qu’ell’s se marient vingt fois par jour
La noce est jamais pour leur fiole
Parole, parole
La noce est jamais pour leur fiole

Fils de pécore et de minus
Ris par de la pauvre Vénus
La pauvre vieille casserole
Parole, parole
La pauvre vieille casserole

Il s’en fallait de peu, mon cher
Que cett’ putain ne fût ta mère
Cette putain dont tu rigoles
Parole, parole
Cette putain dont tu rigoles

«Il lamento delle ragazze di vita» (traduzione di Nanni Svampa e Mario Mascioli)

Sebbene quegli stronzi di borghesi
le chiamino ragazze di vita,
non è che tutti i giorni si divertano, parola mia.
Poiché, pur avendo zampe da gru,
andare su e giù lungo le strade
è faticoso per le gambe,
parola mia.

Non solo hanno calli,
occhi di pernice,
ma è pazzesco cosa consumano di scarpe,
parola mia.

Ci sono dei clienti, dei sozzoni,
che non si lavano mai.
Eppure li devono coccolare,
parola mia

Devono fargli “scaletta”
per farli salire al settimo ciclo,
e i soldi non crediate che li rubino,
parola mia.

Sono disprezzate dalla gente,
sono strapazzate dai piedipiatti
e minacciate dalla sifilide,
parola mia,

Sebbene tutta la vita facciano l’amore,
si sposino venti volte al giorno,
non si godono mai la festa,
parola mia.

Figlio di una smorfiosa e di un deficiente,
non ridere della povera Venere,
della povera vecchia baldracca,
parola mia.

C’è mancato poco, caro mio,
che questa puttana che tu prendi in giro
non fosse tua madre,
parola mia.

«Le tristezze di una donnina allegra» (Amodei)

Anche se i borghesi la voglion chiamare donnina,
altro che allegria:
ha da faticare come una negra.
Compie percorrendo per un giorno intero la via con­sueta,
molte miglia in più di quelle che fa un vero maratoneta.
Fa tanta fatica che però il mestiere non le consente di mettere in mostra
per non dissuadere qualche cliente,
perché sia i clienti quanto il suo magnaccia son del­l’avviso
Che lei debba avere ben stampato in faccia sempre un sorriso.
E magari ha una scarpa troppo stretta col tacco a spillo
o magari l’ha già bell’e resa infetta qualche bacillo
Ha magari i calli, l’occhio di pernice, l’occhio pollino
ma deve ugualmente aver l’aria felice di un cherubino.
Corre sempre il rischio che qualche messere a cui donarsi
non sappia che l’acqua, oltre che per bere, serve a lavarsi.
Quelli del mestiere non son certo ignari,
anzi san bene quanta gente ignora
le più elementari norme d’igiene
Ciò che le dispiace più d’ogni altra cosa
è veder come certa gente si dimostri un po’ ritrosa a darle un nome:
chi la chiama “una di quelle”, chi la dice “donna perduta”,
chi la chiama “etèra” oppure “meretrice” o “prostituta”.
“La prostituzione – dice il buon borghese – che orrenda piaga!”,
poi lui di soppiatto due o tre volte al mese va lì e la paga,
e il curato che le chiede in confessione se non si pente…
poi da lei pretende qualche prestazione gratuitamente.
E il magistrato dopo che le irroga multe severe
poi subito dopo, tolta via la toga, cambia parere.
Ed il poliziotto, quando le consegna il foglio di via,
prima che lei parta… no, non ne disdegna la compagnia.
Voi gente perbene che non conoscete i retroscena
non perseguitate e non deridete la Maddalena.
Voi persone ammodo, gente puritana, voi teste quadre…
c’è mancato un pelo che questa puttana fosse vostra madre.

Ma il caso più eclatante è sicuramente quello della canzone di Gaber «L’amico», che si rivolge all’amico morente per confortarlo. La si confronti con «Jef» di Brel. La differenza sta solo nel fatto che Brel conforta l’amico per un motivo meno tragico, la perdita di un amore; ma le idee, la struttura e la musica sono identiche. Tralasciamo di riportarne i testi perché qui la contiguità è, appunto, soprattutto musicale.

Insomma, nella civiltà di oggi non ci rende conto, forse, di quanta Francia ci sia dunque nella canzone italiana. Mi si lasci per concludere una chiave del tutto sentimentale. Esiste evidentemente un «Mal de Paris» – che non a caso in Italia fu adottato nel 1964 come sigla di un popolarissimo programma televisivo, Le inchieste del commissario Maigret, attraverso una bellissima canzone di Marcel Mouloudji. Ci piace riascoltarla, o quanto meno qui rileggerla:

«Le mal de Paris» (Marcel Mouloudji)

J’ai le mal de Paris
De ses rues, d’ses boulevards
De son air triste et gris
De ses jours, de ses soirs
Et l’odeur du métro
Me revient aussitôt
Que je quitte mon Paris
Pour des pays moins gris

J’ai le mal de la Seine
Qui écoute mes peines
Et je regrette tant
Les quais doux aux amants

J’aime me promener
Dans tous les beaux quartiers
Voir au Palais-Royal
Les filles à marier
Traîner à Montparnasse
De café en café
Et monter à Belleville
Tout en haut de la ville
Pour la voir en entier

J’ai le mal du pays
Quand je suis loin de Paris
Me prend le vague à l’âme
J’ai le coeur qui s’ennuie
Je rêve à cette dame
Dont les toits épanouis
Autour de Notre-Dame
Font des vagues infinies

J’ai le mal de la nuit
De la nuit de Paris
Quand les filles vont et viennent
A l’heure où moi je traîne

J’ai le mal des saisons
Qui poussent leur voiture
Dans les rues de Paris
Et changent sa parure

Le printemps va gaiement
Les arbres sont contents
Puis l’été se promène
C’est dimanche toute la semaine
Les feuilles tombent, blêmes

J’ai le mal de Paris
Durant les jours d’hiver
C’est gris et c’est désert
Plein de mélancolie
Oui, j’ai le mal d’amour
Et je l’aurai toujours
C’est drôle mais c’est ainsi
J’ai le mal de Paris.