Generi come desideri Qualità musicale e qualità letteraria nella popular music europea

Franco Fabbri

prof.fabbri[at]gmail.com

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Abstract

Se dobbiamo descrivere un evento musicale che non è presente nel momento in cui parliamo, possiamo accomunarlo a un altro che il nostro interlocutore probabilmente conosce. Se è simile perché sembra svolgersi secondo le stesse «regole del gioco» parliamo di un genere; se è simile perché sembra costruito alla stessa maniera parliamo di uno stile; se è simile perché è tipico di uno stesso luogo o di una stessa comunità parliamo di una scena. Ma «esistono» questi concetti? «Esiste» il rock progressivo, lo stile classico, il sound di Bristol? «Esiste» la chanson francese?

Quando ci si pongono queste domande, occorre tener presente lo statuto di realtà delle unità culturali, dei concetti. «In ogni cultura una unità culturale è semplicemente qualcosa che quella cultura ha definito come unità distinta diversa da altre e dunque può essere una persona, una località geografica, una cosa, un sentimento, una speranza, una idea, una allucinazione», come ha scritto David M. Schneider nel 1968, citato da Umberto Eco nel suo Trattato di semiotica generale. E dunque un genere, uno stile, una scena esistono se una cultura (cioè una comunità, che in quella cultura si identifica) ha convenuto che esistano. Un’unità culturale, si potrebbe dire, è il primo passo verso la realizzazione di un desiderio: che in quell’unità culturale esista, appunto. Un modello letterario che si può citare a questo proposito è quello del Cavaliere inesistente di Italo Calvino: un’armatura vuota che sta insieme solo perché la volontà popolare lo richiede.

Mi servirò della nozione di desiderio per sviluppare l’argomento centrale del mio discorso, e cioè l’influenza della chanson francese (o dell’opera di un certo numero di auteurs – compositeurs – interprètes) su altre scene nazionali in Europa degli anni Cinquanta del secolo scorso in poi. Con l’ipotesi che molto di ciò che è nato in altri Paesi corrispondesse almeno inizialmente al desiderio di creare qualcosa di simile alla chanson francese. O anche, se quella chanson era un esempio di canzone di alta qualità letteraria e di rilevanza sociale, al desiderio che una canzone così esistesse anche in altre culture.

KEYWORDS: Chanson; ACI; cantautori; canzone d’autore; Europa; teoria dei generi; letteratura.

«Un genere musicale è un insieme di fatti musicali, reali o possibili, il cui svolgimento è governato da convenzioni accettate da comunità».

Chissà se questa è l’ultima volta in cui riporto in una relazione o in un saggio il mio tentativo di dare una definizione di genere musicale, che ha compiuto – nei giorni del convegno di Morgex – trentatré anni. Un’età simbolicamente adatta sia alla crocifissione che all’assunzione in cielo, e magari anche all’oblio. Intorno al 1980 fa ebbi l’idea (tutt’altro che originale) di prendere in considerazione un concetto del senso comune, usato da molti, e di andare a vedere cosa ci stava sotto: non sospettavo che a tanta distanza di tempo quell’idea sarebbe stata ancora così presente, per me. Continuo a incontrare persone, le più insospettabili, che dicono di conoscermi perché hanno letto (o sono state costrette a leggere) i miei saggi sui generi dei primi anni Ottanta: alcuni sono studiosi importanti, anche famosi, che hanno il torto di avere qualche anno in meno di me, e di aver completato quindi i loro dottorati quando quei testi erano ancora freschi di stampa. La comunità degli studiosi, rispetto a quei saggi, si divide in tre: quelli che, felicemente, li ignorano, quelli che li sottoscrivono, quelli che li criticano. Tra quelli che li sottoscrivono, accettandoli più o meno esplicitamente come parte integrante delle loro teorie, ci sono alcuni studiosi di popular music (e di musica in generale) che stimo infinitamente: la mia riconoscenza verso di loro è quella del fabbricante di un componente marginale (ma necessario) di un’automobile di Formula 1, di un aereo, di una stazione spaziale; ho permesso loro di dedicarsi al grande progetto, alle parti davvero essenziali, lavorando al mio accessorio (una rotella, una vitina nel grande ingranaggio: quello che il Libretto Rosso dei pensieri di Mao diceva della cultura e dell’arte rispetto al meccanismo della rivoluzione). Io, però, appartengo alla terza categoria, quella dei critici: in questi trentatré anni mi sono occupato anche di altro, ma non ho mai mancato di tornarci su, di correggere, di integrare, alla luce dei contributi della musicologia, della critica letteraria e cinematografica, della sociologia, dell’antropologia, della semiotica, della filosofia del linguaggio, delle scienze cognitive. Come qualcuno forse avrà notato, la descrizione, più che definizione, di cosa sia un genere che ho dato all’inizio non è esattamente identica a quella dei miei articoli del 1980, 1981, 1982, e per ragioni precise.

Ma devo dire (e anche questa non è un’osservazione particolarmente originale) che i successivi perfezionamenti delle mie elaborazioni teoriche sui generi sono stati mirati non solo a riparare a certe debolezze, ma a mettere la teoria al riparo dagli equivoci e dalle false interpretazioni. Tra queste è stata dominante quella che la teoria dei generi di cui sopra, e forse ogni teoria dei generi, sia rigida, incapace di rendere conto sia delle sfumature e delle zone grigie fra un genere e l’altro, sia delle trasformazioni che intercorrono al passare del tempo. Dato che questi aspetti empirici fondamentali (dei quali ho avuto lunga esperienza nella mia attività musicale, come praticante e come studioso) mi erano invece del tutto evidenti fin dall’inizio, e dato che avevo modellato la teoria proprio perché li incorporasse, queste critiche mi hanno sempre punto nel vivo, e ho teso ad attribuirle più che altro a una mia mancanza di chiarezza. I miei due interventi più recenti, «How Genres Are Born, Change, Die: Conventions, Communities and Diachronic Processes» (Fabbri 2012a) e «Rebetiko as a Testing Device for Genre Theories and Musical Categorizing Processes» (Fabbri 2012b), sono stati pensati proprio per rendere espliciti alcuni punti che, forse a torto, avevo sempre pensato che fossero inclusi nella mia formulazione originale e comunque deducibili da quella.

Devo aggiungere che il mio lavoro sui generi è nato in un’epoca in cui si dava grande valore all’interdisciplinarietà, e dunque si dava per scontato che i contributi di singole discipline fossero valutati, per così dire, in buona fede: le posizioni con le quali mi sono confrontato in seguito, invece, appartengono a un’epoca di forte competitività accademica neoliberale, nella quale pare ovvio che la propria disciplina sia la più avanzata e decisiva per le sorti della scienza, mentre altre (a turno: la semiotica, la filosofia, la storiografia, la musicologia, eccetera) sono «vecchie». Per queste posizioni non mi illudo che i miei chiarimenti servano a granché: come ha osservato felicemente un giovane collega, Carlo Nardi, in una partita a calcio fra modernisti e postmodernisti i secondi vincono sempre, anche se hanno segnato meno goal. Il che è come dire che se un neuroscienziato si inventa un Aristotele che non è mai esistito per bandire come preistorica la nozione di categoria, e propone come nuovo e rivoluzionario il concetto kantiano di schema, nessun invito a studiare la storia della filosofia lo riporterà all’ordine; e se qualche sociologo ignaro di musica e di semiotica mugugna contro la pretesa rigidità della semiotica della musica nessuna precisazione su aspetti di dettaglio della disciplina lo soddisferà.

Ma cosa c’entra tutto questo con la canzone francese, o con la poesia e la canzone in Francia e la sua influenza in Europa? È presto detto, e ce lo racconta ancor meglio il testo di presentazione del convegno di Morgex all’origine di questo saggio: «Dalla loro opera [quella degli autori e interpreti francesi del secondo dopoguerra] ha preso avvio un movimento di radicale rinnovamento della canzone, che in tutta Europa (e anche oltre) ha visto diffondersi un genere di composizioni impegnate nel contenuto e assai curate letterariamente». E noi vogliamo «indagare le linee di quella stagione creativa e dell’influenza che ha esercitato sulla cultura europea».

Dunque, un genere, o uno stile. O forse un insieme di generi e stili. E varie scene, e stagioni. E un’influenza: un altro di quei termini del senso comune, che forse varrebbe la pena di esaminare per verificarne significato e funzionamento. E ancora: un’influenza che viene esercitata da generi, stili, scene, stagioni ­– comunque da concetti-classe – su altri generi, stili, scene, stagioni.

Se dobbiamo descrivere un evento musicale che non è presente nel momento in cui parliamo, possiamo accomunarlo a un altro che il nostro interlocutore probabilmente conosce. Se è simile perché sembra svolgersi secondo le stesse «regole del gioco» parliamo di un genere; se è simile perché sembra costruito alla stessa maniera parliamo di uno stile; se è simile perché è tipico di uno stesso luogo o di una stessa comunità parliamo di una scena, se è simile perché appartiene a un periodo storico definito parliamo di una stagione.  Ma «esistono» questi concetti-classe? «Esiste» il rock progressivo, lo stile classico, il sound di Bristol? «Esiste» la chanson francese?

Quando ci si pongono queste domande, occorre tener presente lo statuto di realtà delle unità culturali, dei concetti. «In ogni cultura una unità culturale è semplicemente qualcosa che quella cultura ha definito come unità distinta diversa da altre e dunque può essere una persona, una località geografica una cosa, un sentimento, una speranza, una idea, una allucinazione», come ha scritto David M. Schneider nel 1968, citato da Umberto Eco nel suo Trattato di semiotica generale (Eco 1975, p. 98). E dunque un genere, uno stile, una scena, una stagione esistono se una cultura (cioè una comunità, che in quella cultura si identifica) ha convenuto che esistano. Per anni mi sono innervosito quando leggevo che certi gruppi inglesi degli anni Settanta venivano fatti appartenere alla «scuola di Canterbury»: conoscendo molti di quei musicisti di persona, sapevo che non c’era nessuna «scuola», e che quasi nessuno di loro era mai stato a Canterbury o aveva qualsiasi legame con quella città. Ma, come loro, ho dovuto rassegnarmi, perché la comunità degli appassionati del progressive rock inglese degli anni Settanta ha deciso inequivocabilmente che quei gruppi appartenevano alla «scuola di Canterbury», punto e basta.

Un’unità culturale, si potrebbe dire, è il primo passo verso la realizzazione di un desiderio: che quell’unità culturale esista, appunto. Un modello letterario che mi piace citare spesso a questo proposito è quello del Cavaliere inesistente di Italo Calvino: un’armatura vuota che sta insieme solo perché la volontà popolare lo richiede. Esiste il rock italiano? I critici musicali ne hanno discusso per decenni, litigando anche sulla sua data di nascita (ammesso che sia mai nato). Ma la comunità dei critici e dei fan, e anche dei musicisti, vuole che un rock italiano esista (o ha voluto che esistesse). E così sia.

Dunque sicuramente deve esistere una chanson francese, visto che tanti ne parlano. Ma quando ci uniamo a quel coro dobbiamo usare perlomeno le stesse cautele di quando discorriamo di «musica classica»: perché anche quello è un concetto nato da un desiderio, e solo a un certo punto della storia. Haydn, Mozart e Beethoven non sapevano di fare «musica classica». Né che erano gli esponenti principali dello «stile classico», o dell’«epoca classica» (una stagione). Né che costituivano la Prima Scuola di Vienna. Proprio non lo sapevano. Ma doveva concretizzarsi, da un certo momento in poi, il desiderio che la musica strumentale austro-tedesca si imponesse sull’opera italiana e francese, invocando la sua purezza, i suoi valori autonomi e assoluti: il concetto di «musica classica» è figlio dei desideri dei critici e musicologi germanofoni, quelli che (come si vantava Hanslick) potevano «distruggere una carriera» (e dunque tanto autonomi non erano, e nemmeno la musica poteva esserlo, almeno rispetto a loro).

Mi servirò della nozione di desiderio per sviluppare l’argomento centrale del mio discorso, e cioè l’influenza della chanson francese (o dell’opera di un certo numero di auteurs-compositeurs-interprètes, ACI) su altre scene nazionali in Europa dagli anni Cinquanta del secolo scorso in poi. Con l’ipotesi che molto di ciò che è nato in altri paesi corrispondesse almeno inizialmente al desiderio di creare qualcosa di simile alla chanson francese. Dunque di imitare, emulare quel modello. O anche, se quella chanson era un esempio di canzone di alta qualità letteraria e di rilevanza sociale, al desiderio che una canzone così esistesse anche in altre culture. Dunque, che nascessero altrove generi omologhi. L’influenza, quindi, può essere interpretata non tanto e non solo come un agente, come qualcosa che qualcuno esercita su qualcun altro, ma come il risultato di una disponibilità a ricevere, di una volontà di imitare o emulare. Anche nei limiti nei quali si possa accettare il modello dell’imperialismo culturale, occorre tener conto del fatto che l’invasore non solo conquista: anche e soprattutto, affascina. Forse in tutti i fenomeni di acculturazione andrebbe prestata più attenzione al sentimento e alla disponibilità di chi riceve e assimila: nel caso della chanson che stiamo esaminando (un caso nel quale è difficile pensare che sia mai esistito un processo deliberato di colonizzazione) credo sia indispensabile.

L’idea di una canzone di alta qualità musicale e letteraria, socialmente rilevante, non è una novità degli anni Cinquanta. Percorre l’Europa per più di un secolo, rimbalzando da un paese all’altro o sviluppandosi in parallelo. Emerge dalla stessa nebulosa semantica nella quale, per buona parte dell’Ottocento e del Novecento, fiorisce anche la canzone d’arte: salvo che mentre il Lied, la romanza da salotto e altri generi di musica d’arte nascono dal desiderio romantico di vitalizzare la poesia e la musica con le radici e gli umori popolari, la canzone «di qualità» nasce dal desiderio inverso di nobilitare la canzone di intrattenimento, quella delle taverne, dei café concert, dei cabaret, dei music hall. In molti casi è difficile distinguere i generi, e perfino gli autori, e gli interpreti, perché la canzone d’arte e la canzone popolare sono proprio al centro di quel processo di differenziazione che nell’arco dell’Ottocento fa nascere, a fianco della musica di tradizione orale e a quella scritta, un terzo grande insieme di musiche di intrattenimento, quella che oggi chiamiamo popular music (si veda Scott 2009). D’altra parte, che la canzone d’arte e quella di intrattenimento «di qualità» siano due unità culturali diverse (e corrispondano a desideri diversi) ce lo dice con molta chiarezza un fenomeno storico, quello che porta alla nascita del Kabarett in Germania. È indiscutibile che alla fine dell’Ottocento i tedeschi e gli austriaci avessero alle spalle una tradizione formidabile di canzoni d’arte (i Lieder di Schubert, Schumann, Wolff, Brahms, eccetera), eppure si sviluppa in quell’epoca un movimento poetico che prende a modello la chanson parigina, dal quale poi emerge una ricchissima produzione che è alla base dei repertori del Kabarett, oltre che del rinnovamento dello stesso Lied d’arte. Su quella poi si innesta, nel primo dopoguerra, la fascinazione delle musiche d’oltreoceano: il tango, il jazz, la commedia musicale. Nel teatro di Bertolt Brecht, nelle musiche di Kurt Weill e Hanns Eisler, ci sono le tracce del teatro popolare inglese, dell’operetta del Secondo Impero, delle canzoni di Aristide Bruant, di Broadway.

Nel secondo dopoguerra le canzoni «di» Brecht sono uno dei modelli sicuri di canzone impegnata e di alto livello culturale. È curioso (lo dico per inciso) che quello stile musicale venga definito (ancora oggi) «brechtiano», quando quella musica nasce dal lavoro di altri: Weill, Eisler, Dessau. Vedremo più avanti come quel modello si affianchi, negli anni Cinquanta e Sessanta, a quello della chanson degli ACI, formando in Europa quasi un unico punto di riferimento. Ma l’esempio weilliano e brechtiano ci è utile ora per gettare un ponte oltreoceano, ricordando come per Bob Dylan (l’ha confessato nel primo volume della sua autobiografia, pubblicato nel 2004) i testi di Brecht siano stati all’origine di una svolta decisiva, quando ancora era immerso nell’ambiente newyorkese del folk revival: se non li avesse ascoltati, e poi letti e riletti mille volte, smontati e rimontati pezzo per pezzo, non sarebbero mai nate alcune delle sue canzoni più famose, quelle che lo trasformarono da promettente epigono di Woody Guthrie a «poeta» delle nuove generazioni (si veda Dylan 2004, pp- 242-256).

Dylan, che aveva esordito come cantante di rock’n’roll, compare sulla scena e raggiunge una fama nazionale e internazionale negli anni culminanti del folk revival statunitense. Spesso ci si dimentica che quando i Beatles e gli altri gruppi inglesi «invasero» gli Stati Uniti, fra il 1964 e il 1965, la scena nordamericana era dominata dalla musica folk, che aveva oscurato da alcuni anni un rock’n’roll in crisi (si veda Cohen 2002). Tra gli assunti di base della scena folk c’era l’idea di autenticità e di rispetto della tradizione, insieme a quella che si dovesse dare espressione ai valori della gente comune (il folk, appunto), dei lavoratori, dei diseredati, delle minoranze prive di diritti, creando nuove canzoni su argomenti di attualità, le topical songs. All’interno di questo movimento, che dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta ha conservato i propri punti di riferimento – anche durante la fase semiclandestina della persecuzione maccartista, nella prima metà degli anni Cinquanta – la questione della qualità letteraria o perlomeno dell’efficacia espressiva è sempre stata in primo piano. Che Dylan, dopo aver imparato da Woody Guthrie a raccontare storie e a esortare alla lotta, prendesse a modello un poeta comunista come Brecht (uno dei massimi poeti del Novecento, in ogni caso), non dovrebbe stupire nessuno, visto che la storia del folk revival nordamericano si sovrappone interamente alla storia della sinistra radicale negli Stati Uniti. Probabilmente, però, ha fatto bene a non raccontarlo fino al 2004. Comunque, non è affatto un caso se nella seconda metà degli anni Sessanta in Europa l’esempio di Dylan si affianca a quello degli ACI francofoni, e a quello della canzone brechtiana: Dylan è una risposta, non molto diversa, e basata su una storia in parte comune, al medesimo desiderio.

«Applaudimmo Gisela May, cantante-attrice, e Ernst Busch, ex-combattente della guerra di Spagna, attore straordinario e insuperabile chansonnier». Così Sergio Liberovici raccontò di uno spettacolo al Deutsches Theater di Berlino, al quale assistette nel 1957. Non si può fare a meno di notare il termine col quale si riferiva a Busch: chansonnier. Un termine forse oggi improprio, ma che in molti paesi del mondo a lungo (e in certi casi tuttora) si è usato per definire il cantante e autore – o co-autore – di canzoni «impegnate». Al ritorno da Berlino, Liberovici fondò insieme ad altri intellettuali torinesi il gruppo del Cantacronache, con l’obiettivo di «evadere dall’evasione» delle canzoni di Sanremo. Il primo punto di riferimento per Liberovici era tedesco: il modello berlinese (Brecht era morto da un anno, Weill mancava dal 1950, ma tutti gli altri collaboratori erano ancora in attività) e, come collante ideologico, la critica sprezzante di Theodor Adorno contro la popular music e il jazz. Ma era forte, all’interno del Cantacronache, l’influenza della canzone francofona, e soprattutto di Georges Brassens, grazie alla capacità di Fausto Amodei di ricreare e trasformare il suo stile, senza copiarlo servilmente (Amodei ha anche tradotto da par suo moltissime canzoni di Brassens, in italiano o in piemontese). Ripensandoci a distanza di poco più di mezzo secolo, è curiosa la commistione dei due modelli (quello brechtiano e quello della chanson), soprattutto dal punto di vista musicale, perché sia pure arrangiate per voce chitarra e contrabbasso le canzoni di Brassens non sono affatto scarne, e la perfezione delle registrazioni della Philips è ben lontana dal pregiudizio adorniano nei confronti della tecnica che animava la teoria e la pratica del Cantacronache. Forse anche per questo le canzoni di Amodei, che complessivamente appaiono le più prossime alla realizzazione del programma del Cantacronache, si distaccano in modo così netto da tutte le altre.

I dischi incisi dai membri del Cantacronache ebbero una circolazione ridottissima. Le case discografiche italiane non se ne vollero interessare: in maggioranza erano legate al vecchio sistema dominato dalla Rai, dal Festival di Sanremo, dagli autori di professione che avevano iniziato le loro carriere nel Ventennio. Alcuni discografici più giovani intuirono il cambiamento che era nell’aria, ma si indirizzarono verso autori e interpreti meno compromessi e compromettenti. E poiché il termine chansonnier – che anche in Italia si usava per riferirsi agli autori/interpreti – aveva un colore politico inequivocabile, derivato da ciò che si sapeva (o si credeva di sapere) della scena parigina, fu presto sostituito da un neologismo scherzoso, «cantautore», col quale la cantante e autrice Maria Monti aveva descritto il suo amico Gino Paoli. I primi cantautori italiani avevano alle spalle storie e influenze diverse: alcuni erano autori in cerca di interpreti adeguati, altri erano cantanti in cerca di autori adeguati, e prima che si incontrassero fra loro qualche discografico illuminato (Nanni Ricordi, Vincenzo Micocci) aveva detto: «Ma perché non le canti tu, le tue canzoni, se non le vogliono i cantanti di successo?» «Perché non te le scrivi tu, le canzoni che non trovi?» E certamente uno dei modelli di autore – compositore – interprete che si offriva loro era quello francofono. Ma fu, altrettanto certamente, quello dei singer-songwriters pop che avevano avuto successo negli Stati Uniti, e in Italia, in quegli anni: da Paul Anka a Neil Sedaka, a Buddy Holly, e così via. E così molte delle canzoni dei primi cantautori italiani sono degli strani ibridi, dove al giro di Do del pop americano si sovrappongono versi estratti di peso dalle canzoni dei maestri francesi (come ne «La gatta» di Gino Paoli).

Negli ultimi quindici anni si è parlato molto dell’influenza di Georges Brassens sui cantautori italiani, e soprattutto su Fabrizio De André, che tradusse, imitò, anche plagiò il suo maestro francese («La città vecchia» è un rifacimento, non accreditato, di «Le bistrot»). Non fu il solo. Si dovrebbe anche ricordare che, d’altra parte, Brassens non fu l’unico modello francofono di De André: un certo modo di suonare la chitarra (che alcuni ritengono del tutto tipico del cantautore genovese: quello di canzoni come «Amico fragile» e «La domenica delle salme») fu ripreso dal Brel di «Le plat pays», forse attraverso l’intermediazione di Leonard Cohen. E indiscutibilmente, per quanto possa contare, l’immagine di Fabrizio – come si faceva chiamare all’inizio della carriera – era ricalcata su quella di Brel.

La vita e l’opera di Fabrizio De André è stata studiata più di quelle di tutti gli altri cantautori italiani messi insieme: è il risultato della sua morte relativamente precoce, del suo atteggiamento coraggioso e privo di compromessi nei confronti dei media e del mercato, della sua capacità di mettersi al centro di una rete di collaborazioni che ha coinvolto quasi l’intero ambito della canzone d’autore italiana, oltre che – ça va sans dire – della qualità di molte sue canzoni. Ma questo quasi-monopolio critico ha contribuito anche a una visione poco obiettiva dell’importanza della canzone francofona negli sviluppi della canzone italiana a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, un’epoca nella quale non si può dire che Georges Brassens fosse particolarmente noto in Italia (De André si faceva portare i suoi dischi da Parigi, dal padre, perché in Italia erano introvabili), mentre altri interpreti e autori francesi godevano di una popolarità di massa, sancita da frequenti apparizioni televisive: prima Gilbert Bécaud, poi Charles Aznavour. Nei primi anni Sessanta le loro canzoni, in lingua originale o tradotte in italiano, furono tra i maggiori successi in assoluto. Se Aznavour divenne, con le sue interpretazioni delle proprie canzoni in italiano («La mamma», «Com’è triste Venezia», più avanti «La bohème»), una presenza familiare sulla scena locale, quasi un cantante italiano con un po’ di accento, Bécaud contribuì forse più di ogni altro alla creazione dell’immagine dello chansonnier (così come la si percepiva in Italia): musicista, elegante, serio (un po’ sopra le righe), di sinistra.

«Et maintenant» fu un enorme successo internazionale, inciso da decine di altri cantanti in varie lingue, da Frank Sinatra a Shirley Bassey a Connie Francis a Nana Mouskouri (come del resto «Je t’appartiens», che finì anche nel repertorio di Elvis Presley e dei Righteous Brothers). E questo dovrebbe contribuire anche a sfumare l’idea di totale diversità della canzone francese, in quegli anni, rispetto alle correnti internazionali della popular music: se a volte, nel tentativo di imitare la canzone francese, si creavano degli ibridi (come ho accennato a proposito della «Gatta» di Gino Paoli), è anche perché la stessa canzone francese era ibridata con la canzone angloamericana, come testimonia uno dei più grandi successi del 1961 (lo fu anche in Italia), «Il faut savoir» di Charles Aznavour (per non dire delle svariate cover francesi di canzoni provenienti da oltreoceano, che spesso in Italia venivano percepite come originali: è il caso di Richard Anthony, ad esempio).

In questa luce, si può guardare ai cantautori italiani degli anni Sessanta con un occhio più distaccato e comprensivo: non erano poi così «diversi» dalla scena della canzone che allora si chiamava «di consumo», e quest’ultima, a sua volta, non era necessariamente priva di altri valori oltre a quello commerciale (estetico, sociale, anche politico). Era in corso un grande cambiamento nell’industria musicale, sotto la spinta di modelli «di qualità» provenienti dall’estero: a volte anche copiando si poteva fare qualcosa di buono.

Non dedico più di un accenno, in questa sede, allo sviluppo della nova cançó in Catalogna e dell’entechno laiko traghoudhi in Grecia. Ma tengo a far notare come anche in questi casi «l’influenza francese» consista nel desiderio di colmare un vuoto, in paesi a lungo (e all’epoca, nel caso della Spagna, ancora) dominati da regimi autoritari. Inutile cercare di nasconderlo: il filo che corre sotto al movimento che promuove la qualità letteraria e musicale della canzone, nell’Europa del dopoguerra, è anche il filo dell’antifascismo.

Appunto: nella Germania divisa e sconvolta del dopoguerra la nascita di un movimento di canzone impegnata paragonabile a quelli incontrati finora fu ostacolata a lungo dalla memoria dell’uso che della canzone popolare aveva fatto il nazismo, nella scuola, nella propaganda, nelle organizzazioni giovanili. Ma già alla fine degli anni Cinquanta, e soprattutto all’inizio del decennio successivo, si affacciarono sulla scena i primi rappresentanti del movimento dei Liedermacher. Modelli ovvii erano Brassens e Pete Seeger, e prime occasioni pubbliche le marce contro la minaccia di una guerra nucleare, iniziate nel 1960. Nella cultura tedesca la canzone politica di sinistra ha modelli importanti nel lavoro di Brecht e Eisler, di Tucholsky, di Ernst Busch, interprete storico del Kabarett degli anni Venti e dell’Opera da tre soldi, attivo negli anni Cinquanta e Sessanta nel Berliner Ensemble e punto di riferimento della scena teatrale e musicale di Berlino Est e della Repubblica Democratica Tedesca, anche a livello internazionale. Ma l’aspro conflitto politico di quel periodo, con la messa fuori legge del partito comunista nella Repubblica Federale Tedesca (1956) e la costruzione del muro di Berlino (1961) rendeva molto difficili i rapporti diretti tra i movimenti musicali delle due Germanie. A Ovest uno dei primi Liedermacher fu Dieter Süverkrüp, chitarrista jazz e autore di alcune tra le prime canzoni contro la bomba atomica del movimento dell’Ostermarsch. Spesso musicava i testi di Gerd Semmer, poeta, paroliere, saggista, a sua volta ispirato da Brecht e Tucholsky, e considerato il «padre delle canzoni di protesta» della Germania federale. Altri protagonisti del movimento dei Liedermacher furono Franz Josef Degenhardt, particolarmente noto a partire dall’album Spiel nicht mit den Schmuddelkindern (1965), e successivamente considerato il cantore del movimento studentesco del 1968, Hannes Wader, che si ispirava a Brassens e Dylan, e Walter Mossmann, entrambi attivi e acclamati soprattutto tra la fine degli anni Sessanta e tutto il decennio successivo. Nel 1982 Mossmann vinse un premio per la «piccola arte tedesca», ma la WDR (la radio di Colonia, che ospitava la premiazione) la censurò. La musica della canzone premiata, «Lied für meine radikalen Freunde», è quella della «Chanson pour l’Auvergnat» di Brassens.

Ma torniamo al Nord, e a Est, per completare un (almeno parziale) giro d’Europa. La vita e la carriera di Wolf Biermann si svolge in un percorso tortuoso che varie volte interseca la scena del Liedermacher della Germania federale. Nato ad Amburgo – figlio di un operaio ebreo e antinazista dei cantieri navali, poi morto ad Auschwitz – al termine degli studi si trasferisce a Berlino Est, dove frequenta l’università, conosce Eisler, lavora come assistente alla regia al Berliner Ensemble. Il suo lavoro di poeta, cantautore, saggista, impegnato a sinistra ma contrario alla burocrazia del partito, ha successo negli ambienti progressisti della Germania democratica ma gli procura l’ostilità del governo, che in varie occasioni impedisce la pubblicazione dei suoi dischi. Biermann si organizza allestendo un proprio studio di registrazione a Berlino Est e per circa un decennio è il punto di riferimento della dissidenza progressista, intoccabile per la grande popolarità che ormai ha raggiunto anche fuori dai confini delle due Germanie. Nel 1976 si trasferisce ad Amburgo rinunciando alla cittadinanza della RDT, e l’anno dopo lo raggiunge anche la moglie con Catharina, figlia di un matrimonio precedente, che diventerà più tardi nota come la cantante rock Nina Hagen.

Una vicenda umana non dissimile, anche se più drammatica, è quella di Vladimir Vysotskij («Volodja», 1938-1980), attore, poeta, cantautore moscovita, attivo in Unione Sovietica dall’inizio degli anni Sessanta in un contesto culturale e ideologico prossimo a quello frequentato da Biermann: entra nel 1964 al teatro Taganka diretto dall’attore e regista anticonformista Jurij Ljubimov e diventa noto per le sue interpretazioni vertiginose, che presto lo rendono inviso ai vertici del partito. Anche come cantautore è popolarissimo, ma non vengono pubblicati i suoi dischi: le canzoni di «Volodja» circolano clandestinamente, su nastri per registratori portatili e poi su cassetta. Solo verso la fine degli anni Settanta la casa discografica di stato, Melodiya, ne pubblicherà alcune, per poi rendergli un tributo postumo, quasi alla vigilia del crollo dell’Unione Sovietica. Anche Bulat Okudzhava (1924-1997), moscovita di origine armena, ha faticato ad avere le proprie canzoni documentate su disco, nonostante fossero meno esplicitamente «problematiche» e chiaramente ispirate al modello di Brassens. È considerato il fondatore di un genere, l’avtorskaya pesnya (letteralmente «canzone d’autore»), i cui protagonisti, tutti marginali rispetto al potere sovietico, vengono chiamati «bardi».

Conclusioni

Per concludere, le prove dirette e indirette dell’esistenza di un modello francese per i movimenti di canzone artisticamente e politicamente impegnata nell’Europa del secondo dopoguerra sono numerose. Il desiderio di imitare, di emulare quel modello era tanto più forte nei paesi nei quali era mancata a lungo – anche nella popular music – la libertà di espressione; in quegli stessi paesi forse non a caso un altro punto di riferimento è quello «brechtiano», e quello delle topical songs angloamericane. Sotto quest’ultimo profilo, è interessante e curioso che mentre (nella seconda metà degli anni Sessanta) gli autori di canzoni «impegnate» in Europa affiancavano il primo Dylan ai modelli francesi, lo stesso Dylan invece prendeva a modello di maestria poetica (in un periodo cruciale della sua produzione) l’europeo Bertolt Brecht. Resta per ora fuori da questo quadro un mondo intero di canzoni, quelle del folk revival (prima) e dei singer-songwriters (poi) in Gran Bretagna. Un mondo che merita sia, per così dire, sul fronte interno, sia su quello dell’influenza su altri generi e scene, molta più attenzione di quella davvero incredibilmente lacunosa che finora i popular music studies gli hanno dedicato.

Bibliografia

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