A ciascuno il suo Brassens Zio Georges e i suoi nipotini traditori

Alessio Lega

alessiolegaconcerti[at]gmail.com

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Abstract

 Attraverso una disamina dei cantanti/traduttori italiani che si sono cimentati – in lingua o in dialetto – con le canzoni di Georges Brassens (Ferigo, Svampa, Amodei, Chierici, Setaro, Fornaciari) si prende in considerazione la molteplicità di punti di vista, a volte contraddittori e inconciliabili, presenti nell’opera multiforme del grande autore francese. Colosso della poesia cantata, letterato finissimo per rigore formale e musicalità, Brassens ha fornito spunti complessi che la sensibilità dei suoi traduttori ha sviluppato in direzioni che a volte sono andate lontane dalla radice originale.

Ciascuno ha infine trovato il suo Brassens: anarchici, spiriti liberi, musici, poeti, cantastorie…

Poi hanno tutti preso la propria strada. Alcuni hanno conservato per il maestro francese (che, nella migliore delle ipotesi si sarebbe messo a ridere a sentirsi chiamare «maestro») una sacra deferenza, ne hanno fatto un maestro di vita oltre che di poesia e di canto. Molti altri invece hanno maturato il distacco, ne hanno preso le distanze, ci hanno «litigato», come si fa coi genitori famosi, con gli ispiratori troppo ingombranti.

Fra tutti questi io qui parlerò soprattutto dei musicisti, per l’affinità dei linguaggi che rende i processi evidenti, ma si potrebbe allargare lo sguardo a generazioni di scrittori, pittori, fumettisti, giornalisti, militanti politici e sindacali delle più disparate tendenze libertarie e socialiste… e infine anche degli anonimi che «non avendo ideali sacrosanti si limitano a non rompere i coglioni ai loro prossimi» (Georges Brassens, «Don Juan»).

Molti, soprattutto francofoni ma non solo, hanno avuto la loro iniziazione a un pensiero sociale con Brassens. Ah, quanto si sarebbe stupito lui di questa cosa, però è così. La potenza espressiva di chi non ti vuole insegnare nulla, di quello che non ha da venderti un ideale (anche il più bello al mondo) è dirompente. Non c’è niente da fare: si pende dalle labbra proprio di quelli che sono più refrattari a fare i maître à penser. Si calcola male, al ribasso, quanto nel Novecento siano state importanti le canzoni nella formazione politico-culturale delle generazioni che si sono susseguite; almeno tre di queste si sono abbeverate direttamente o indirettamente a Brassens.

Poi si prendono le distanze, ci si accorge che magari Brassens era “un uomo all’antica” anche per i suoi tempi, che la sua bella e anticonformista refrattarietà al matrimonio non auspica certo il superamento della coppia, ma rifonda una sorta di patto fra due amanti basato – pensa un po’ che novità! – sulla fedeltà, anche se con qualche possibile deroga concessa alla Penelope di turno. Molto romantico Georges, ma anche un po’ reazionario quando, con garbo e poesia infinita, infligge una tirata moralista alle donne che vivono libere e promiscue unioni, «Les mouton de Panurge» dice lui, le «pecorone» che fanno all’amore perché “va di moda”, augurando alla fine di ritrovare lo spirito delle «Veneri di un tempo che facevano l’amore per amore».

Si impara da Brassens il rispetto per i proletari, per i poveri cristi e le puttane, per gli ubriaconi e i bohémien di periferia, per il contadino schiantato dal lavoro nel dignitoso silenzio del suo orgoglio. Ma quando quest’amore che abbiamo imparato da lui vuole prendere una forma ideologica e strutturata, magari confrontarsi con una possibile soluzione collettiva dei problemi, ecco che l’individualista Brassens ci stigmatizza, ci dice che le idee «vanno e vengono/tre piccoli giri, tre piccoli morti e poi spariscono».

Brassens ci dice che «il plurale non serve a niente» e «se si è in più di quattro si è una banda di stronzi». Tutto sommato, se penso ai compagni arrestati in Val di Susa, per una volta mi viene da parteggiare per il comunista Jean Ferrat, che in amichevole polemica gli rispose con un’altra canzone:

In gruppo in fila in processione
È tempo che io lo confessi
Io son di quelli che manifestano.
Sono di quelli che si fan tacere
In nome di libertà inventate
Il denunciatore dei massacri
Che ha perduto con soddisfazione
Vent’anni di guerre colonialiste.
In gruppo in fila in processione
E anche solo se capita
seguiterò a lottare.
Mi si può dire con arguzia
Che in gruppo in fila in processione
Siamo dei pecoroni
Ma ho una consolazione:
Si può esser da solo e un coglione
E in questo caso lo si resta.
(«En groupe en ligue en procession», traduzione mia)[1]

Brassens, tutto preso dalla sua lotta per salvaguardare l’individuo in una società che vedeva sempre più massificata, arriva a fare un panegirico dello «sbirro buono» che salva il barbone dal congelamento dandogli il suo mantello e giunge fino all’imperdonabile equiparazione fra lo zio Martino resistente e lo zio Gastone collaborazionista nella Francia occupata, rispettivamente nelle canzoni «L’épave» (1966) e «Les deux oncles» (1964).

Indubbiamente così molti dei suoi «allievi spirituali» prendono le distanze, ma Brassens non era uomo da compiacere alcuno, sotto il suo apparente distacco e la sua bonomia è sempre rimasto un manicheo che vuole dividere e provocare. Probabilmente è proprio qui, nel Brassens più discutibile, quello che oltre a scioccare i benpensanti vuole scandalizzare persino i suoi «seguaci», gran parte della sua forza, della sua irriducibilità a monumento culturale, del motivo per cui va ascoltato, criticato, tradotto.

E così tutti i «brassensiani» hanno finito per farsi il proprio Brassens uno “Zio Georges” a propria misura. Vagare ascoltando i suoi interpreti e i suoi traduttori – una galassia quasi sterminata, ma noi ci limitiamo a segnalare qualche italiano – può essere uno dei modi più interessanti e trasversali di avvicinarsi alla sua opera.

Giorgio Ferigo era uno di quegli strani tipi di cui non si dovrebbe perdere memoria. Un medico umanista, un filosofo politico, un contemplativo incazzato. Un personaggio raro e sconosciuto fuori dai confini della sua Carnia – il cuore più inviolato del Friuli. Fra la stesura di un libro in cui si scagliava contro l’assurda burocrazia che costringe i medici a farsi estensori di certificati più che a guarire la gente e l’impegno per la messa a norma igienica dei posti di lavoro, aveva fondato il Povolâr Ensemble, un gruppo musicale acustico che recuperava un dialetto ancora vivo, ma sempre più in pericolo. Ferigo ha lavorato sulle radici per aprirsi meglio al mondo e non per ripiegarsi su quella nostalgia, ignorante e aggressiva, che oggi è la passione triste di un nord satollo e disperato. Ferigo aveva tanto amore per la sua lingua da volerla fare dialogare con le canzoni francesi come coi grandi movimenti culturali del Novecento europeo: sua una traduzione friulana de L’Histoire du soldat di Stravinskij.

Jerbata: 13 canzoni di Georges Brassens tradotte in friulano, pubblicato dall’etichetta discografica Nota di Udine nel 2000, è una delle perle sepolte nei fondali marini della recente discografia italiana. Il Brassens tradotto in friulano (anzi in carnico) da Ferigo e cantato dai Povolâr è un ragionatore, che vive in disparte, che sogguarda il mondo con dolce distacco, con ironia carica d’amore, con compassione fraterna. Insomma un montanaro dal cervello fino che parla da pari a pari con gli alberi, coi fiori e con quella morte che ha riunito al Georges di Sète, scomparso nel 1981, il Giorgio friulano nel novembre del 2007.

Tutt’altro personaggio quell’energumeno dal cuore d’oro che parla milanese: a prima vista si somigliano come due gocce d’acqua, ma quest’altro sta nella periferia meneghina di Ortica o Lambrate dei primi anni Sessanta. Quello è contadino, tranquillo e contemplativo, questo è urbano, svelto e con la lingua tagliente. Un sentimentale travestito da cinico, curioso del mondo e di tutto, che passa il tempo ad attraversare i quartieri in tram, s’immischia di fatti non suoi, tutt’uno con quella città che oggi non c’è più: “Milano col cuore in mano”, il paesone dei «ghisa» (i vigili urbani, chiamati così per via dell’elmetto spropositato) e dei «rocchetta» (i magnaccia), poveri cristi senza lavoro, gestori di un’«impresa» familiare, varata in seguito a qualche disastro economico che li aveva condannati all’indigenza più nera. Questa era la grande e bella città operaia di Milano, caduta vittima del berlusconismo ante litteram degli anni Ottanta, la vera protagonista di quelle canzoni di Brassens tradotte dal suo ambasciatore italiano Nanni Svampa.

Nanni, cantante, scrittore e uomo di teatro dalle infinite risorse, ha dedicato alle canzoni di Brassens una buona metà della carriera, carriera in cui ha   rinnovato la storia del cabaret con il gruppo dei Gufi e inciso per l’etichetta Durium un’antologia della canzone lombarda in 12 volumi, impresa culturale seconda per importanza forse solo alla Napoletana di Murolo. Svampa ha tradotto e cantato decine di canzoni di Brassens, in italiano con risultati alterni e in milanese con risultati eccelsi. Il primo disco dedicato a quel repertorio l’ha registrato nel 1965, il più recente nel 2004: come dire, l’impegno di una vita.

Due artisti agli antipodi, due indoli diverse: un appassionato curioso delle forme che prendono le parole al servizio del sociale e un professionista del palco con quasi mezzo secolo di carriera alle spalle, eppure entrambi attratti da quest’altra strana bestia di cantautore francese che, con la sua indifferenza a tutte le mode e a tutte le scuole, ha suscitato più vocazioni al canto che chiunque altro.

È complesso il rapporto che gli autori italiani hanno stabilito con Georges Brassens! Ognuno lo tratta come una cosa solo sua, presa, stravolta, tradotta, tradita, voltata e rivoltata in tutte le salse, in tutti i dialetti, sempre per passione, sempre con amore.

Fausto Amodei è una figura centrale per la storia della nostra canzone, è l’autore di «Per i morti di Reggio Emilia» – uno dei due o tre canti passati, senza soluzione di continuità e senza bombardamenti mediatici, dalla sua chitarra all’inconscio popolare («Compagno cittadino/fratello partigiano/teniamoci per mano/in questi giorni tristi…») – è stato fra i fondatori del collettivo torinese  Cantacronache, che prima di ogni altro (fra il 1957 e il 1964) tentò una rifondazione culturale e politica della «canzonetta».

Fausto, che ha sempre esercitato il mestiere di architetto, relegando l’attività di cantante e autore ai ritagli di tempo, non ha mai nascosto di avere come ispiratore proprio Brassens, e ha omaggiato il maestro traducendolo (soprattutto) in piemontese. Purtroppo la sua natura schiva, poco incline a frequentare gli studi di registrazione, ci priva di una testimonianza discografica di tali versioni, ma la memoria dei non pochi spettatori che hanno assistito ai recital in cui Amodei ha proposto tale repertorio, conserva l’impressione di un ennesimo Brassens dal carattere ancora diverso da tutti gli altri: un Brassens dalla lingua golosa ed educata, che pronuncia degli inappuntabili turpiloqui perfettamente rimati e a denti stretti… insomma un Brassens giandujotto: un Brassens torinese!

Negli anni Settanta ebbe una certa rinomanza il fantasista Beppe Chierici, che pubblicò per l’etichetta OFF e poi per la Zodiaco – con l’imprimatur dello stesso autore, suo amico personale – due dischi di canzoni tradotte, questa volta in italiano. Se le traduzioni di Chierici hanno sempre fatto storcere il naso ai puristi per l’eccesso di licenze formali che si prendono – parole piane che diventano tronche, rime forzate, uso insistito dei diminutivi –, hanno però il merito di restituire a Brassens alcune sue caratteristiche: il gusto della storiella surreale, dello scioglilingua nonsense e una certa friabile delicatezza, una cantabilità leggera che la nostra poesia possiede molto meno di quella dei cugini d’oltralpe.

La militanza di Chierici nel genere della canzone per bambini – in quegli anni portata alle sue vette da Sergio Endrigo – riconduce anche i versi dello zio Georges (a patto di sorvolare su qualche parolaccia) a questo pubblico ideale, che in Francia gli è devoto: pensate che esistono delle antologie specifiche delle sue canzoni per gli scolari delle elementari, che in gita cantano abitualmente «La chasse aux papillons», come fosse «Quel mazzolin di fiori».

Giuseppe Setaro oggi è uno dei più misteriosi e infaticabili artigiani casalinghi del brassensismo nostrano: nulla o quasi si sa di lui, non sono mai riuscito a vederlo cantare, ma con i suoi 7 CD autoprodotti, fitti fitti di canzoni, il bergamasco sembra voler cedere alla tentazione di voltare in italiano la totalità dei testi di Brassens (senza dimenticare quelli dei poeti da lui messi in musica). Con la grazia nel porgere che gli è propria, Setaro ci regala un Georges nobile e puro, un classico della poesia un po’ asettico, da mettersi a fianco a Ronsard e Lamartine.

Coltissimo, ma decisamente incline agli umori pesanti di Rabelais (tanto per restare fra classici della letteratura) è Pardo Fornaciari. Personaggio pantagruelico lui stesso, con le sue dotte riflessioni sul bagitto (il dialetto della comunità ebraica livornese) e con la sua aria da Mangiafuoco buono, Pardo è un intellettuale impegnato, ma anche un gaudente che trovi in osteria a disquisire di ricerca filosofica con certi ubriachi che sembrano tutti cugini di Piero Ciampi. Si diletta a fare il cantastorie, l’agitatore culturale, il linguista ed è una delle firme storiche del fin troppo virulento giornale satirico Il Vernacoliere (un’istituzione per tutta l’Italia centrale). Pardo nel CD Porci, poveracci e vecchi malvissuti (2004) ha trapiantato gli antieroi parigini di Brassens nel porto labronico, dandone una lettura che non si capisce se sia più erudita, plebea, emotiva, umorale o politicamente scorretta.

Questi alcuni degli esempi più macroscopici di un’attitudine tutta italiana ad appropriarsi del repertorio di Brassens e a farne la propria “palestra d’ardimento”, il proprio campo di battaglia linguistico, un’attitudine che non è solo italiana (Brassens è certamente l’autore più globalmente adattato al mondo) ma che nel nostro paese conosce una fioritura davvero straordinaria che – a parte gli artisti citati più su, che vi si sono dedicati organicamente – troviamo frammentata anche in un’ulteriore ridda di citazioni, e brani sparsi nei dischi di Gipo Farassino come in quelli di Gino Paoli, di Luca Faggella come dei Têtes de Bois (irresistibile nel loro Pace e male la versione di «Un joli fleur» recitata da Arnoldo Foà). E così pure tornano a sentirsi nuovi brani e traduzioni per bocca del cabarettista Alberto Patrucco, che da qualche anno porta in giro uno spettacolo brassensiano e che sta ultimando il relativo disco sotto la supervisione dell’ottimo Sergio S. Sacchi del Club Tenco, per tacere alla fine di chi scrive, che in due propri CD ha inserito sue versioni italiane di classici del repertorio di Brassens.

Al di là dunque delle mode e della francofilia degli autori degli anni Sessanta, l’opera di Brassens resta una straordinaria fucina di idee e forme nuove, capace di confrontarsi coi linguaggi di ogni generazione degli autori che abbiano la fortuna e il gusto di imbattervisi.

Ma perché? Perché un autore anarchico, ferocemente individualista, allergico a ogni dialogo col presente e sempre più rifugiato – man mano che viveva la sua vita – in un’arcadia stilisticamente ferma al classicismo, in una lingua zeppa di arcaismi e in uno stile musicale il cui riferimento più moderno fu il jazz manouche di Django Reinhardt, ha affascinato così tante generazioni?

I versi di Brassens sono un catenaccio ritmico inarrestabile, le sue rime interne ed esterne un’impalcatura che, se manomessa, frana senza misericordia. Eppure Brassens, l’autore più tecnico, è anche il più incandescente, il più emotivo, il più indignato: la sua abilità è rigore, la sua ironia è pietà, la sua dolcezza è condanna.

Ecco perché continuiamo ad affannarci a proporre e inseguire quelle canzoni, che in ogni lingua, in ogni dialetto, ci raccontano sempre cose lievemente diverse e attinenti alla stessa verità profonda: l’assoluta necessità di portare rispetto non all’umanità, concetto astratto, ma alla concreta e reciproca appartenenza al mondo delle debolezze umane, anche col rigore nell’arte del fare canzoni, con una perizia che altro non è che rispetto del pubblico e della canzone stessa, genere popolare né minore né effimero.

Non posso concludere questo scritto senza dare concretezza al fantasma che aleggia ogni qual volta si parli di Brassens in Italia, senza dire qualcosa del suo allievo spirituale più universalmente noto. Lo faccio con una riflessione (per la quale devo ringraziare Riccardo Venturi, cui l’ho saccheggiata[2]) che la dice lunga sulla sottigliezza e sul confronto cui la pratica della traduzione delle canzoni ci può spingere.

L’ultima strofa di una delle più celebri e contestate canzoni di Georges, «Mourir pour des ideés», scritta nella sua fase più matura, recita così:

Ô vous, les boutefeux, ô vous les bons apôtres
Mourez donc les premiers, nous vous cédons le pas
Mais de grâce, morbleu! laissez vivre les autres!
La vie est à peu près leur seul luxe ici bas
Car, enfin, la Camarde est assez vigilante
Elle n’a pas besoin qu’on lui tienne la faux
Plus de danse macabre autour des échafauds!
Mourrons pour des idées, d’accord, mais de mort lente
D’accord, mais de mort lente.

Fabrizio De André la cantò così:

E voi gli sputafuoco, e voi i nuovi santi
Crepate pure per primi noi vi cediamo il passo
Però per gentilezza lasciate vivere gli altri
La vita è grosso modo il loro unico lusso
Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta
Non c’è nessun bisogno di reggerle la falce
Basta con le garrote in nome della pace
Moriamo per delle idee, va beh, ma di morte lenta
Ma di morte lenta.

La canzone di Brassens – inserita nel suo penultimo LP – fu pubblicata nel 1972, la traduzione di De André è del 1974, dunque, se si considerano i tempi solitamente lunghi di registrazione, missaggio, stampa di un disco, e poi ancora la particolare lentezza e attenzione che Fabrizio De André adoperava nel realizzare i suoi progetti, viene da considerare come questa traduzione – l’ultima da lui compiuta da un testo di Brassens – sia stata rapidamente realizzata (le altre precedenti erano fatte a distanza di decenni dalla pubblicazione dell’originale) e testimoni una sorta di urgenza espressiva. E proprio così dev’essere stato: De André ha saccheggiato pensiero, forme e melodie brassensiane e ha tradotto un pugno di sue canzoni nei primi anni della carriera, come una sorta di apprendistato; nella fase di cui stiamo parlando pareva interessato da tutt’altro modo di scrivere, centrato sul modello anglo-americano di Dylan e Cohen, dunque le due traduzioni – «Le passanti» e «Morire per delle idee» – rappresentano un commiato da una certa cultura, ma anche una folgorazione e un ultimo ritorno di fiamma.

La traduzione di «Mourir pour des ideés» è molto attenta e la strofa che prendiamo ad esempio non lo è meno delle altre. Uno solo è il cambiamento, che proprio per la sua singolarità risulta macroscopico. Nel testo originale francese si possono notare dei versi del tutto tipici del medioevo atemporale di Brassens:

Car, enfin, la Camarde est assez vigilante
Elle n’a pas besoin qu’on lui tienne la faux
Plus de danse macabre autour des échafauds!

La «danse macabre autour des échafauds», ovvero la danza macabra attorno al patibolo è un’immagine che più brassensiana non si potrebbe. C’è tutto un mondo attorno ad essa, che va dalle poesie di François Villon alle illustrazioni dei libri popolari, dalle tradizioni nordeuropee alle ballate popolari. Ma cosa canta De André? Parte con una resa fedele:

Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta,
non c’è nessun bisogno di reggerle la falce.

Ma poi:

Basta con le garrotte, in nome della pace.

Le «garrotte»? La «pace»? Dov’erano le «garrotte» nel testo di Brassens? La traduzione di De André, dicevamo, è del 1974. Si tenga a mente l’anno. Ritengo che nominare le garrote in un testo scritto nel 1974 sia un riferimento a un fatto ben preciso di tremenda attualità: la condanna a morte e l’esecuzione per garrottaggio dell’anarchico Salvador Puig i Antich, avvenuta proprio agli inizi di marzo del 1974. De André toglie di mezzo il medioevo atemporale e inserisce un fatto politico che riporta all’attualità di quegli anni. Traducendo De André cerca di essere se stesso quanto più possibile, tenta di inserirsi nello specifico storico con una variazione di prospettiva: sembra di vedere tutta la storia di Spagna, in quel «Basta con le garrotte», una storia che rispecchia le incisioni di Francisco Goya di «No se puede saber por qué», con l’immagine terribile della schiera di garrottati che si trasmette fino alla storia recente di quel paese ed all’assassinio del giovane anarchico, di cui forse abbiamo perduto memoria, ma che ancora ci deve scuotere. Altrimenti noi saremmo perduti e queste non sarebbero che canzonette.

Discografia ragionata

Nella palese e patente assurdità di compilare una discografia di Georges Brassens (la rete brulica di discografie analitiche e molto esaustive), segnalo i dischi del Brassens tradotto di cui parlo nel contributo, a volte di difficile reperibilità è mai più ristampati.

Jerbata (libro con CD), Nota Music Suns Cdbook 313, 2001. Tredici canzoni di Georges Brassens, tradotte in friulano da Giorgio Ferigo, suonate e cantate dal Povolar Ensemble.

Nanni Svampa ha registrato a più riprese il repertorio di Georges Brassens tradotto in milanese per l’etichetta Durium, la prima volta nel 1964 Nanni Svampa Canta Brassens, poi nel 1971 Nanni Svampa canta Brassens- Cofanetto 3 LP, nel 1975 Il menestrello (in italiano). Tali versioni e nuove registrazioni (anche live) di questo repertorio sono state riprese in molte registrazioni degli anni ottanta, novanta e duemila in CD con varie etichette.

Beppe Chierici incise due LP dedicati a Brassens: Chierici canta Brassens, Bluebell – Serie OFF, VO/LP 201 (1969), Beppe come Brassens – Storie di gente per male, I dischi dello zodiaco, VPA 8329 (1976). Vengo a sapere, mentre correggo questo articolo, che recentemente ha incrementato la sua produzione brassensiana. Si veda in particolare La cattiva erba (libro + 2 CD), disponibile su http://www.beppechierici.it.

I CD autoprodutti di Giuseppe Setaro mi risultano del tutto irreperibili sul mercato discografico anche online.

Porci poveracci & vecchi malvissuti. Brassens a Livorno (2003) è il CD autoprodotto di Pardo Fornaciari.

Chi non la pensa come noi è il titolo del disco di Alberto Patrucco (Universal Music, 2008).

In Sotto il pavé la spiaggia (Nota Music, 2006) il sottoscritto canta anche brani di Brassens, oltre che di Brel, Ferré, Renaud e Leprest.

[1] Canzone del 1966 di Jean Ferrat, che l’autore dedicò a Brassens in un’affettuosa polemica che trovò ampio spazio anche su stampa e televisione dell’epoca.

[2] Le riflessioni di Riccardo Venturi cui faccio riferimento furono formulate in annose discussioni in osteria o in scambi mail privati; se ne ritrova però qualche eco nello straordinario sito che contribuisce a redigere, Canzoni contro la guerra: <www.antiwarsongs.org>.