Il canto di Pier Vittorio Tondelli e la musica emiliana

Giacomo Giuntoli

giuntolir@tiscali.it

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Abstract

La musica nell’opera di Pier Vittorio Tondelli ha originato un notevole interesse fra gli studiosi dello scrittore correggese, in virtù dei continui rimandi alla pop culture disseminati nelle sue opere. Quest’articolo verterà sul rapporto di Tondelli con la musica emiliana, aspetto tanto ben specifico quanto poco studiato. In un viaggio ideale fra la Via Emilia e il West, questo rapporto – complesso e incredibilmente sfaccettato – verrà distillato, per essere afferrato nei suoi temi principali, anche attraverso l’analisi della produzione di altri musicisti e scrittori, italiani e stranieri.

«Quando non sai dove stai andando, ricordati da dove vieni»

La musica e il vino

La musica nell’opera di Pier Vittorio Tondelli ha originato un notevole interesse fra gli studiosi dello scrittore correggese, in virtù dei continui rimandi alla pop culture disseminati nelle sue opere, ancor più evidenti nella collaborazione con Rockstar (1985-1992) e in alcune sezioni di Un weekend postmoderno (1990a). Al volume Tondelli e la musica (Casini 1994) – che conteneva ricordi di amici musicisti dello scrittore unitamente ai primi saggi sull’argomento – sono seguiti molti articoli e tesi inedite, fra cui quella di Alessandro Manca (2014), creando con celerità una corposa bibliografia. Quest’articolo verterà sul rapporto di Tondelli con la musica emiliana, aspetto tanto ben specifico quanto poco studiato. In un viaggio ideale fra la Via Emilia e il West, questo rapporto – complesso e incredibilmente sfaccettato – verrà distillato, per essere afferrato nei suoi temi principali, anche attraverso l’analisi della produzione di altri musicisti e scrittori, italiani e stranieri. In un articolo su Zucchero (Tondelli 1989b) poi contenuto in Un weekend postmoderno, è lo stesso Pier Vittorio Tondelli a fornire l’incipit concettuale di questo lavoro:

Prendete, per esempio, le straordinarie poesie, in dialetto romagnolo, di Raffaello Baldini: recitatele a voce alta, cantatele. Quello è l’andamento del blues: l’anima il sentimento, l’emozione, i nomi propri, le situazioni quotidiane, le città, i quartieri, l’epos popolare, il rimpianto, i tic e la malinconia. Zucchero è nato a Reggio Emilia nel novembre del 1955. È curioso notare che in pochi chilometri quadrati, fra Reggio e l’appenino tosco-emiliano, si concentrano esperienze diversissime, ma tutte approdate al successo internazionale: Vasco Rossi, cantore dell’inestinguibile anima rockettara della regione; i CCCP-Fedeli alla linea, con il loro punk filosovietico; la pazzariella e geniale Lady, oh Lady Spagna, con la sua dance music, nata quasi per le megadiscoteche della bassa e finita, invece, a primeggiare nelle classifiche di mezzo mondo. Tutti lì, fra Reggio, Modena e Bologna: i Nomadi, l’Equipe 84, Francesco Guccini, Lucio Dalla, Claudio Lolli, gli Skiantos, i Ladri di biciclette (di Carpi), Ligabue (di Correggio)… Anime diverse di una terra, di un mito americano, ora inseguito, ora prepotentemente rifiutato, generazione dopo generazione: i simboli di un modo di guardare e, soprattutto, di sentire il mondo, la vita, con una particolare pensosità, riflessività, entusiasmo, forse anche struggimento. E su tutto, una concretezza, una carnalità non solo dei corpi, ma proprio delle campagne, degli alberi: la carne del cielo, la carne del fiume.

Non solo il Tondelli di Un weekend postmoderno enumera band e cantanti emiliani, non solo paragona il blues sanguigno di Zucchero alle poesie di Raffaello Baldini,[1] egli si spinge a concettualizzare la musica e la poesia emiliana come canto della terra e dei corpi, facce indivisibili della stessa medaglia.

Sebbene il legame viscerale di Tondelli con la sua regione – e in particolare con Correggio, città che gli diede i natali – venga recuperato appieno solo negli ultimi anni della sua vita, esso era già intuibile nel suo Un racconto sul vino del 1988 (Tondelli 2001c, pp. 152-171). Il racconto si apre con il famoso contrasto fra un Pier Vittorio Tondelli studente universitario e il professor Umberto Eco, il quale decide di penalizzare l’elaborato del suo studente, avente per tema il vino nella tradizione poetica mondiale, con una valutazione di 29/30. Nel corso di questo contrasto, che prelude all’affrancamento di Tondelli dalla castrante lezione accademica in favore di un modo – ingenuamente adolescenziale ma immensamente più potente – di concepire la musica (e, con la musica, le parole), si fronteggiano due modi diametralmente opposti di approcciarsi al linguaggio: la retorica del postmoderno de Il nome della rosa e il ritmo della pagina di Altri libertini (1980). Il racconto si chiude con una citazione dell’autore modenese Antonio Delfini, che evoca un prelibato lambrusco al sapore di viola:

Quella sera – come del resto sempre – mi dissetai con una bottiglia di lambrusco. Era un vino leggerissimo, frizzante, profumato di viola, già raro allora nella produzione del lambrusco e ora scomparso per l’avanzamento della filossera.[2]

È evidente come, per Tondelli, la voce – unica e irripetibile – di ogni autore non possa far altro che accogliere e distillare in sé, mentre canta, i sapori della propria terra. Sebbene essi siano, drammaticamente, destinati a estinguersi nell’alternanza del ciclo delle stagioni e nell’invecchiamento delle generazioni, sebbene le vigne si dissecchino, il frutto dei chicchi si può distillare, conservandolo in pregiate bottiglie che raccolgono in sé il canto della terra di origine: i chicchi stanno alle parole come la bottiglia del sommelier sta al libro (Tondelli 2001c, p. 159). Il vino quindi incarna il canto della terra.

A metà di Un racconto sul vino, Tondelli ci fornisce un altro, prezioso, indizio sul binomio poesia/musica: dopo la semiotica astrusa di Eco e prima del lambrusco catartico di Delfini, si narra di come il liceale Pier Vittorio Tondelli cominci a tradurre con fervore i poeti lirici Alceo e Orazio solo grazie all’opera di mediazione che ebbe la canzone «Un altro giorno è andato» di Guccini, tratta dal disco L’isola che non c’è del 1971: quando una compagna di classe gli mostra il testo della canzone ricopiato sul diario, l’adolescente Tondelli non può far altro che rimanere colpito dalla forte similitudine fra i versi del cantautore di Pavana rispetto a quelli dei poeti classici:

Eppure fu attraverso le sue canzoni che scoprimmo alcune questioni elementari che nessun professore ci aveva spiegato; e cioè che Guccini era un poeta conviviale del XX secolo, così come Alceo lo era (con Saffo) del VI a.C. e Orazio del I secolo sempre a.C. Che da quei lirici eccelsi – quelli che io amo al di sopra di ogni altro, poiché riuniscono la bellezza archeologica della riscoperta di una lingua morta alla nascita stessa,[3] per un adolescente, della parola “poesia” – Guccini aveva saputo prendere stimoli e lezioni, ne aveva ripercorso i temi, gli ambienti, la poetica, gettandoli negli accordi di una ballata rock. […] Le osterie di Francesco Guccini, il suo vino, i suoi bicchieri, i suoi tarocchi diventarono così l’accompagnamento dei nostri studi. Sentivamo quanto grande e vitale fosse questo collegamento fra la poesia conviviale classica e contemporanea (Tondelli 2001b, p. 780).

Questa consapevolezza, datata 1988, è la chiara testimonianza di un autore profondamente evoluto rispetto ad Altri libertini. Solo ripercorrendo a ritroso il viaggio letterario tondelliano si può comprendere il passaggio dal rock dell’esordio al blues di Un racconto sul vino.

Come un prequel: Fra la Via Emilia e il West

Nel fulminante esordio di Altri libertini, non c’è molto spazio per la musica emiliana. In Postoristoro, «Una fighetta […] accende il juke-box, esce una canzonaccia di Grace Jones»;[4] (Tondelli 1980, p. 12); mentre in Viaggio, il protagonista canta «Sea Song» di Robert Wyatt (Ivi, p. 58), un pezzo del 1974 incluso in Rock Bottom, per poi fare una versione, accompagnato dagli amici, di Viva Chile! degli Inti Illimani (Ivi, p. 64). Nella pagina successiva conosce Sammy della John Hopkins «dove pare che insegni in quegli anni anche Francesco Guccini»: fa riflettere – ma non stupisce – che Francesco Guccini venga citato come docente, invece che come cantante. Guccini incarna infatti quella grande anima emiliana da cui l’autore, in Altri libertini, si è allontanato in nome del rock internazionale approfondito grazie al corso sul romanzo di frontiera di Gianni Celati:[5] ridurlo – seppure unico musicista italiano citato – a una breve comparsata evidenzia come Tondelli fosse orientato al sound d’oltreoceano. In Viaggio (Ivi, p. 71), il protagonista ascolta con Dilo «Bird on the Wire» di Leonard Cohen e una canzone del troubadour americano Tim Buckley, ossia «Goodbye and Hello», tratta dall’omonimo disco del 1967, per poi definire Karla «una bella ballata di Leonard Cohen», il cui nome appare qui per la prima volta; in Senso contrario, l’io narrante e Ruby ascoltano musica dall’autoradio ma non vengono citati i pezzi che ascoltano; in Altri libertini i protagonisti ascoltano prima «vecchia roba ma ottima dei Jefferson Airplane e Soft Machine, qualcosina dei Gong e degli Strawbs e qualcos’altro di Lou Reed […] assieme a Trespass dei Genesis che tutti noi ricordiamo a Reggio Emilia che eravamo quindicenni o poco più», e, infine, Bob Marley (Ivi, pp. 113-114); poi, all’osteria di Aroldo, gli avventori si divertono ad ascoltare Annacarla che canta Bob Dylan «con la sua voce nasale che pareva Carole King» (Ivi, p.119). Da notare come, in Altri libertini, venga lasciato ampio spazio alla musica cantautorale: tutti menestrelli di cui anche l’italiano Guccini fa parte.

Questa profonda esterofilia musicale non cambia in Pao Pao (1982), dove si legge che «i Clash fornirono la colonna sonora di tutto quell’anno in divisa» (Ivi, pp. 202-203) e la «new wave […] in quel tempo era sicuramente il massimo del massimo» (Ivi, p. 273). Eppure, in Pao Pao come nel libro d’esordio, i personaggi eseguono brani musicali: l’io narrante canticchia «Once I Was» di Tim Buckley, sempre tratta dal solito Goodbye and Hello (Ivi, p. 205) e, poche pagine dopo, «Tony alla chitarra faceva robe strappalacrime degli Inti Illimani» (Ivi, pp. 241-242). Nel testo saranno inoltre citati anche Weather Report, Talking Heads, Devo ma ancora nessuna traccia di musica italiana.

Rimini come Hollywood

Sebbene le linee direttive di Altri libertini e Pao Pao siano confermate in Dinner Party (1994), in cui la musica è essenzialmente questione «di stile» e «di generazioni», con Rimini (1985) si assiste a un radicale cambiamento di rotta. Nei mesi antecedenti alla scrittura del romanzo, che avviene fra il 1983 e i primi mesi del 1985, Tondelli attraversa una profonda crisi spirituale che si traduce in una scrupolosa riflessione formale: poiché l’autore di Rimini non è più quello di Altri libertini e Pao Pao, in questo romanzo i richiami alla musica, fin dall’exergo, sono evidentissimi e assolutamente imprescindibili per comprendere il testo. Per quanto, anche in questo caso, abbondino i riferimenti alla musica estera e scarseggino quelli alla musica emiliana, nel testo – cripticamente – c’è un piccolo grande richiamo, in un luogo che sembra parlare d’altro:

Quando finalmente l’ultimo gruppo di avventori se ne fu andato, Alberto salutò gli amici dell’orchestra e si diresse verso l’uscita. Sostò un paio di minuti, appena fuori, boccheggiando muto con il viso rivolto verso l’alto, gli occhi stretti, le braccia aperte e tese, le narici dilatate. Aveva smesso di piovere. I pini marittimi gocciolavano, grandi pozzanghere si erano formate sui vialetti delle traverse, l’aria portava con sé forti odori: di mare, di terra, di ozono, di marcio, di sabbia bagnata, di legno verniciato, di asfalto, di resina. Alberto tornò nel suo camerino, aprì la custodia nera e imbracciò il sax. Raggiunse il lungo mare. Si sedette sul muricciolo e cominciò a suonare. Attaccò con una libera esecuzione del ritornello dell’Hit della stagione:

«I’m Nobody!

Who are you?

Are you –

Nobody – too?

Then There’s a pair of us!»

Il testo – aveva letto – era stato scritto da una poetessa americana cent’anni prima, ma quello che veramente lo faceva impazzire era la musica. Anche perché sapeva arricchirla al momento giusto entrando in anticipo su certe battute. Passò poi a una versione sincopata di Joe Jackson che lo faceva rabbrividire per la bellezza finché non si accorse che stava eseguendo una musica completamente nuova e diversa, una musica sua che non aveva mai sentito prima ma che in quel momento seppe di avere sempre conosciuto. […] Alberto suonò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, muovendosi sulle gambe abbassandosi fino a chinarsi quasi a toccare l’acqua del mare. Il ritmo lo aveva ormai preso, non conosceva più la stanchezza e il tedio e il dolore di quell’alba bagnata e fredda, di quel momento umido che gli aveva intorpidito il sangue e da cui solo suonando si sarebbe purificato. Suonò con foga, passione, con rabbia con amore e il suo canto rauco si aprì attorno a lui e dai suoi polmoni, dal suo cuore, dal suo vecchio sax si allargò alla spiaggia, superò la linea colorata delle cabine, si distese sul viale del lungomare, raggiunse il molo del porto dove le onde della burrasca si infrangevano con spumeggiante violenza; raggiunse i viali alberati, le insegne spente degli hotel, i parcheggi delle vetture, le cime dei pini frustate dal vento, le barche attraccate nei porti che mordevano gli ormeggi come cavalli selvaggi desiderosi di libertà; andò sull’insegna del Top In, su quella della sua pensione, sui viali della circonvallazione e finalmente si aprì fino ad abbracciare tutta la riviera. Andò sui volti tirati dei camerieri e delle ragazze di servizio che fra poco avrebbero dovuto alzarsi per raggiungere le cucine unte e bollenti e sature di vapori; andò sui posteggiatori di taxi che sonnecchiavano con il capo reclinato sui vetri dei finestrini, una rivista aperta in grembo; andò sulle cabine telefoniche, sui binari viscidi e luccicanti delle stazioni, sugli strass delle puttane e dei travestiti che raggiungevano le loro stamberghe di lusso, andò sui corpi molli degli amanti addormentati e finalmente placati dopo una notte d’amore, andò sui visi dei portieri di notte accucciati nelle loro sdraie pieghevoli, andò nelle camerate delle colonie per bambini, in quelle per vecchi, raggiunse finalmente quella porta, di fronte alla sua stanza, in cui – ormai lo sapeva – stava sognando una donna, una donna che ancora non aveva osato mostrarsi durante quei suoi ritorni all’alba ma che ogni notte lo attendeva. E il suono del suo sax, la sua musica, fu come il rauco grido di dolore delle cose e degli uomini colti in quel momento bagnato, all’alba dopo il diluvio (Tondelli 2001a, pp. 522-524).

A un esame attento, seppur sommario, appare evidente come Alberto, il sassofonista, suoni prima l’hit dell’estate, seguita da una cover di Joe Jackson e, proprio da questa canzone, nasca una musica nuova, tutta sua. In molte interviste d’epoca, a cavallo fra Pao Pao e Rimini, Tondelli parlò del suo rinnovato interesse per la classicità: in effetti, Joe Jackson, con i suoi «Night and Day» e «Body and Soul», fu il padrino, insieme a Donald Fagen e al capolavoro The Nightfly, del new cool, ossia il revival pop-jazz che fu rappresentato da band come Style Council, Working Week e Matt Bianco e che fu – a tutti gli effetti – un ritorno all’ordine dopo le rivoluzioni apportate da punk e da new wave. In questo contesto, è evidente come Joe Jackson fosse il perfetto alter ego di Tondelli: anche lo scrittore di Correggio, dopo le arditezze linguistiche dei due libri d’esordio e la parentesi jazz di Rimini, era pronto a suonare il blues della sua terra. Nell’inautenticità del non luogo Rimini c’è posto per un vero urlo di dolore che squarcia la frivolezza balneare: è questa la classicità di cui parla Tondelli! Il cambiamento di stili compulsivo – tipico della postmodernità – è sovvertito dal soffio che esce dal cuore del sassofonista, un soffio che, per quanto ibridato da influenze americane, è prepotentemente emiliano e terragno e che porterà, in Un racconto sul vino, alla rivalutazione dell’amore adolescenziale verso Guccini, il cui uso a fini poetici avviene prepotentemente solo a fine carriera. Infatti, Un racconto sul vino è del 1988, il brano dedicato a Zucchero è del 1989, come pure la recensione dalla prima prova narrativa di Guccini, Cròniche epafaniche:

Leggendo ripenso a Radici, a certi concerti in cui Guccini raccontava di Pavana e dell’appenino, e già imbastiva, davanti al pubblico, i ricordi e gli aneddoti di un modo di vita, di un’infanzia che nel romanzo, oggi, sembra un po’ quella selvaggia di Tom Sawyer. […] Guccini preferisce fare di tutti questi ricordi una materia linguistica viva e narrata. […] Perché queste Cròniche sono potentemente reinventate sulla pagina e, nonostante l’accuratezza filologica, la scrittura è condotta su modelli letterari ben rintracciabili: cronache popolari, certo, ma anche il parlato selvaggio di certi narratori americani, lo slang degli anni sessanta e, perché no, anche la lingua immaginaria e carnale di un Rabelais (Tondelli 2001b, p. 343).

Radio on 1990-91

Nel 1990, il ritorno di Tondelli alla musica emiliana conosce un altro momento importante. In Quarantacinque giri per dieci anni (Tondelli 1990c), piccola opera di media lunghezza (40 cartelle) che avrebbe dovuto essere riscritta sotto forma di «ballata su dieci anni» e ancora da valutare adeguatamente da parte della critica, si possono intravedere alcuni spunti che certo Tondelli avrebbe approfondito se solo avesse avuto il tempo. Anche in essa latitano i riferimenti alla musica italiana eccezion fatta per il capitolo Radio On 1985 in cui appaiono sette frammenti di testi tratti da altrettante canzoni italiane, con relativo commento d’autore. Si tratta di brani legati all’adolescenza di Tondelli, nell’ordine: «Mi ritorni in mente» (1969) di Lucio Battisti, «La tua prima luna» (1970) di Claudio Rocchi, «In fondo al viale» (1968) dei Gens, «Acqua azzurra, acqua chiara» (1970), «8.1.51» (1970) di Claudio Rocchi, «Michel» (1972) di Claudio Lolli e infine nuovamente «Un altro giorno andato» (1971) di Francesco Guccini, in cui Tondelli cita gli stessi versi della canzone presenti in Un racconto sul vino. Riporto il brano di Guccini e le note conclusive dell’intero brano:

Ritrovo queste sette canzoni, in questo preciso ordine, nell’esattezza di queste citazioni, su uno di quei fogli sparsi che ho sempre chiamato il mio diario. A mano sono scritte le situazioni a cui si riferiscono: il viaggio, il party, la scuola… Un abbozzo di colonna sonora per quegli anni. Forse avevo intenzione di scrivere un testo partendo da quelle frasi e da quelle suggestioni. La musica mi ha sempre spinto a scrivere. Il rock mi ha insegnato la velocità, e la forza; queste canzoni, invece, la concentrazione e l’intimità. Vorrei commentare con qualche parola da L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, ma preferisco riportare l’annotazione che ho trovato ieri leggendo il diario di Giovanni Comisso: Tutta questa presunzione di scrivere racconti o romanzi è una buffonesca menzogna. Non resiste narrativamente che la storia di se stesso (Tondelli 2001b, pp. 660-661).

È chiaro come, in questo brano, Tondelli faccia i conti con la propria voce, una voce prima rock (Altri libertini, 1980), poi jazz (Rimini, 1985), poi ambient (Camere separate; 1989a) e infine, con l’incompiuta ballata dei Quarantacinque giri, blues. La dichiarazione di intenti contenuta nella nota su Giovanni Comisso, purtroppo, non avrà uno sviluppo concreto: in questa citazione, la biografia è possibile perché Tondelli ha compreso che non occorre camuffare la sua terra, quella emiliana, come fosse l’America. Paradossalmente, se l’Emilia è l’America, il suo cantare non aveva bisogno di passare per modelli stranieri: la pittura en plein air di quello che vedeva, di quella terra così disperatamente e amorosamente sua, conteneva già quella contraddizione in termini che permetteva di avere non solo Rimini come Hollywood, ma anche Correggio come Nashville – o Riccione come Coney Island. È in questa consapevolezza tardiva che risiede l’intuizione che, forse, avrebbe consentito a Tondelli di rielaborare la fenomenologia dell’abbandono, passando da una fase mitica a una fase epica in cui «la carne del cielo» avrebbe lenito «il dolore della separazione».

Radio on 2017

Le riflessioni musicali che Tondelli lascia nei suoi ultimi scritti sono innegabilmente suggestive e lasciano intuire una nuova fase che rimarrà – purtroppo – incompiuta. Dopo un’attenta riflessione, l’unico modo plausibile per terminare un articolo che non può compiersi è quello di citare i versi iniziali di «Un soffio caldo», canzone scritta a quattro mani da Francesco Guccini e Zucchero nel 2012. Per ragioni evidenti, Tondelli non ha potuto ascoltarla, ma – alla luce di questo viaggio a ritroso negli scritti tondelliani – ho ragione di credere che gli sarebbe piaciuta:

L’alba e i granai,

filtra di qua dal monte.

Piano si accende,

striscia e dà vita al cielo.

Scende e colora

vivida il fiume e il ponte.

Oh è tempo per noi di andare via

Bibliografia

Casini, Bruno (a cura di). 1994. Tondelli e la musica. Colonne sonore per gli anni Ottanta. Baldini & Castoldi, Milano.

Giuntoli, Giacomo. n.d. «Trilogia della forma – Dissertazione III – Il postmoderno mistico in Rimini di Tondelli», in www.crapula.it, <http://www.crapula.it/trilogia-della-forma-dissertazione-iii-conclusiva-perche-la-forma-puo-ne-deve-avere-fine-il-postmoderno-mistico-rimini-tondelli-apogeo-dellinautenticita-o-effet/>. Ultimo accesso: 23 dicembre 2016.

Lanzillotta, Monica. 2011. Giganti e cavalieri di strada, Longo Editore, Ravenna.

Manca, Alessandro. 2013-2014. Romanzo critico e nostalgia del centro: Un Weekend Postmoderno di Pier Vittorio Tondelli. Tesi di laurea di I° livello inedita, corso di laurea in Lettere, Università degli Studi di Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 1980. Altri libertini. Feltrinelli, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 1982. Pao Pao. Feltrinelli, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 1985. Rimini. Bompiani, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 1989a. Camere separate. Bompiani, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 1989b. «Il caso Zucchero», in L’Espresso, 30 luglio.

Tondelli, Pier Vittorio. 1990a. Un weekend postmoderno. Cronache degli anni Ottanta. Bompiani, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 1990c. «Quarantacinque giri per dieci anni», in Tondelli et al., Canzoni. Leonardo, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 1992. «Culture Club su Rockstar (1985-1989)», in Rockstar, n. 8.

Tondelli, Pier Vittorio. 1994. Dinner Party. Bompiani, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 2001a. Opere Vol. I, Bompiani, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 2001b, Opere Vol. II, Bompiani, Milano.

Tondelli, Pier Vittorio. 2001c. L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano.

Discografia

Battisti, Lucio. 1969. «Mi ritorni in mente» / «7 e 40». Ricordi, SRL 10-567, 45 giri.

Battisti, Lucio. 1970. «Acqua azzurra, acqua chiara» / «Dieci ragazze». Ricordi, SRL 10-538, 45 giri.

Buckley, Tim. 1967. Goodbye and Hello. Elektra, EKS-7318, LP.

Buckley, Tim. 1967. Once I Was. Elektra, EKS-7318, LP.

Cohen, Leonard. 1969. Bird On the Wire. Columbia, CS 9767, LP.

Fagen, Donald. 1982. The Nightfly. Warner bros records, 92 3696-1, LP.

Genesis. 1970. Trespass. Philips, 6369 905L, LP.

Gens. 1968. «In fondo al viale» / «Laura (dei giorni andati)». Det recording, DTP 40, 45 giri.

Guccini, Francesco. 1971. «Il bello» / «Un altro giorno è andato». La voce del padrone, MQ 2130, 45 giri.

Guccini, Francesco e Fornaciari, Zucchero. 2011. Un soffio caldo. Polydor, 0602527558684, CD.

Jackson, Joe. 1982. Night and Day. A&M records, AMLH 64906, LP.

Jackson, Joe. 1984. Body and Soul. A&M records, AMLX 65000, LP.

Jones, Grace. 1979. «On Your Knees» / «Don’t Mess with the Messer». Island records, WIP 26511, 45 giri.

Wyatt, Robert. 1974. Sea Song. Virgin, VIL 12017, LP.

Inti Illimani. 1973. Viva Chile! I dischi dello zodiaco, VPA 8175, LP.

Lolli, Claudio. 1972. Michel. Columbia, 3C 064-17814, LP.

Rocchi, Claudio. 1970. 8.1.51. Ariston, AR/LP/11020, LP.

Rocchi, Claudio. 1970. La tua prima luna. Ariston, AR/LP/11020, LP.

Note

[1] Raffaello Baldini è un poeta dialettale romagnolo cui Tondelli si avvicinò soprattutto alla fine della sua vita. Oltre al brano succitato, Baldini è chiamato in causa nel celebre saggio Cabine! Cabine! (1990, in Tondelli 2001b, pp. 497-524) dove Tondelli cita la sua E’ bagn ad nòta (Il bagno di notte).

[2] Per il progetto Case della letteratura Tondelli avrebbe voluto includere anche Antonio Delfini e la sua casa di Modena. Ma il progetto si è fermato dopo due soli scritti dedicati alle case di Jack Kerouac e a Frederic Prokosch. Si ricordi, inoltre, che lo scrittore di Correggio evoca nuovamente il lambrusco e il suo aroma per definire un modo di essere anche nell’intervista-racconto a Umberto Tirelli (1990), famoso costumista nativo di Gualtieri (RE): «Pensate alle feste della vendemmia, alle bottiglie di lambrusco, più rosato e frizzante nelle cittadine emiliane, scuro e forte in quelle mantovane» (Tondelli 2001c, p. 198).

[3] Qui l’autore sottolinea un aspetto interessante di questa lingua d’occasione che nasce e muore durante il momento conviviale. Però, nonostante sia trascorso molto tempo dal momento del canto, permane come letteratura.

[4] Nel libro non è specificata la canzone di Grace Jones però, considerando la precisione dei riferimenti musicali in Tondelli, si può risalire al titolo del brano grazie all’informazione che è suonato da un juke-box. Così, grazie a una breve ricerca su discogs.com, si scopre che nel 1977 e nel 1979 (si ricordi che Altri libertini entrò nelle librerie a inizio 1980) uscirono in apposite edizioni per i juke-box italiani, i singoli di Grace Jones «La vie en rose» e «On Your Knees». Essendo descritta come canzonaccia pare improbabile che si tratti della cover del classico francese. È quindi molto probabile che la canzone suonata dal juke box sia proprio «On Your Knees».

[5] Monica Lanzillotta (2011) ha brillantemente dimostrato l’influenza che ebbe Celati negli anni formativi di Tondelli.