«Da Stockhausen a Orietta Berti» L’era del Battiato pop Il biennio 1979-1981 in tre album chiave

Vanna Lovato

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Nota

A dieci anni esatti dalla pubblicazione, la musicologa e giornalista Vanna Lovato ci ha concesso di rendere disponibile “in chiaro” per i lettori di Vox Popular un ampio stralcio, venti pagine, del suo Franco Battiato 1965-2007. L’interminabile cammino del Musikante (Editori Riuniti, Roma 2007, pp. 47-67), dedicato al passaggio, cruciale nella carriera del Maestro di Ionia, tra anni Settanta e Ottanta. Si tratta dell’analisi di tre dischi (L’era del cinghiale bianco, 1979, Patriots, 1980, e La voce del padrone, 1981, tutti per EMI) che, nell’inaugurare l’apertura della musica battiatesca a una maggiore fruibilità popular (gesto questo, almeno inizialmente, fortemente osteggiato da quella stessa critica che aveva tanto apprezzato gli esordi sperimentali del Battiato solista), hanno profondamente influenzato l’immaginario pop italiano, capaci come sono stati di conciliare lavor(ì)o sulla forma-canzone, souplesse e (auto)ironico distacco delle liriche. Il primo e il terzo disco, in particolare, non mancano mai di presenziare nelle liste e nelle classifiche dei dischi imprescindibili – a seconda dei casi – “del pop”, “del rock” o “degli anni Ottanta” italiani, forti di veri e propri tormentoni quali «L’era del cinghiale bianco», da una parte, e «Summer on a Solitary Beach», «Bandiera bianca», «Cuccuruccucù» e «Centro di gravità», dall’altra. La transizione “da Stockhausen a Orietta Berti”, come sarcasticamente – ma icasticamente – sintetizzato dai detrattori dell’epoca, viene qui raccontata da Lovato articolando, alternandole, le tre dimensioni (1) del testo musicale, (2) del suo contesto, dei suoi co-testi (per esempio, la scrittura di «Un’estate al mare» per una Giuni Russo al Festivalbar) e delle sue fonti, e (3) della sua pragmatica di ricezione, con un piglio giornalistico che, senza semplificare la materia, riesce a renderla leggibile anche al lettore meno avvezzo alla terminologia musicologica. Ancora grazie a Vanna per averci consentito di completare, con un tassello fondamentale, il nostro tentativo di mosaicizzazione di un decennio veramente di svolta per i modi di produzione, le estetiche, le correnti del gusto e, più in generale, gli assetti socioculturali del nostro paese. [GM]

L’era del cinghiale bianco (EMI, 1979)

«L’era del cinghiale bianco» / «Magic Shop» / «Strade dell’Est» / «Luna indiana» (strumentale) / «Il re del mondo» / «Pasqua etiope» / «Stranizza d’amuri»

Produzione: Angelo Carrara

Testi e musiche: Franco Battiato

Arrangiamenti: Franco Battiato e Giusto Pio

Registrato allo Studio Radius di Milano

Direzione artistica e copertina: Francesco Messina

Musicisti: Franco Battiato (voce); Giusto Pio (violino, direzione d’orchestra); Roberto Colombo (tastiere); Antonio Ballista (tastiere); Alberto Radius (chitarra); Julius Farmer (basso); Tullio De Piscopo (batteria, percussioni); Danilo Lorenzini e Michele Fedrigotti (duo pianistico in «Luna indiana»).

Con il passaggio alla Emi, etichetta a cui Battiato rimarrà legato fino al 1995, gli anni Settanta si chiudono con una scelta artistica fondamentale: l’abbandono dello sperimentalismo elettronico a favore di un ritorno al linguaggio della canzone. Nasce così L’era del cinghiale bianco, il primo album pop di Battiato. Quello che ne consegue, però, non ha niente a che vedere con le goffe canzonette degli esordi, ma rappresenta piuttosto un nuovo concetto di canzone d’arte: una canzone che si esprime con uno sguardo lucido e distaccato sulla realtà attraverso dei testi dal linguaggio tagliente e ironico («Tutto Il cinghiale bianco è mosso da uno spirito ironico. Anzi, c’è ironia a chili», dirà a Ciao 2001), il tutto spalmato – e questa è la novità principale per Battiato – su un tappeto sonoro di grande impatto, con batteria, basso e tastiere in primo piano, ritornelli dalle melodie accattivanti, archi discreti e ben calcolati.

Tra i musicisti che lo accompagnano ci sono un paio di nomi che abbiamo già incontrato nell’ultima parte del cosiddetto periodo sperimentale: Giusto Pio, che qui cura gli arrangiamenti e la direzione orchestrale, e Antonio Ballista al pianoforte. Alberto Radius (produttore e chitarrista storico dei Formula 3) è la new entry più importante: questo disco, così come i successivi cinque, viene registrato nel suo piccolo studio milanese, e lui continuerà a collaborare con Battiato fino alla fine degli anni Ottanta, diventando anche l’artefice dell’importante incontro artistico con Giuni Russo. Quella con Tullio De Piscopo rimarrà invece un’esperienza isolata, e ben presto il suo posto alle percussioni verrà preso da un altro della cerchia storica (dai tempi di Fetus), Gianfranco D’Adda. Il risultato è un sound che, mantenendo un profilo qualitativo di indiscutibile valore, si rende ora accessibile a tutti. «Tutto deriva da una mia necessità espressiva», spiega Battiato in un’intervista del 1979. «Il suono è una cosa, la parola un’altra e, nel linguaggio musicale, la canzone mi sembra il mezzo più congeniale per esprimere certe cose». Giusto Pio al riguardo ricorda una telefonata dal contenuto un po’ più spicciolo: «Mi dice, “perché non cerchiamo di guadagnare un po’ di soldi e facciamo un po’ di canzoni?” Da lì è partita la storia».

A metà tra l’esigenza espressiva e il desiderio di affermazione, il nuovo Battiato pop matura un vero e proprio sentimento di rifiuto (se non di rancore) nei confronti di quella musica “alta” praticata in precedenza. In questo senso, le sue dichiarazioni ai giornali sono esagerate e provocatorie, e a volte anche contraddittorie. Subito dopo l’uscita del disco, alla domanda di un intervistatore che gli chiedeva se il suo ritorno alla canzone dopo un disco come L’Egitto prima delle sabbie fosse da considerarsi un «atto di umiltà», il musicista risponde risoluto: «Questo genere di distinzioni viene usato da musicisti che hanno dei complessi di inferiorità enormi. Il compositore classico ha il complesso di non saper fare canzoni, e quelli che fanno canzoni hanno il problema inverso. Io non sopporto la posizione aristocratica di certi interpreti e compositori che scambiano il timbro e la raffinatezza espressiva con l’assoluto. L’assoluto non esiste e io ci andrei piano a dire con certezza che un vibrato di violino o che una nota fatta da una grande orchestra sia superiore ad una qualsiasi canzone». Poi azzarda dei giudizi lapidari sia su quei “mostri sacri” che erano stati i suoi maestri, come Stockhausen e Cage («Cage! Un mito di carta: non so quanto potrà restarne un domani» dirà all’inizio degli Ottanta a Riccardo Bertoncelli), sia su compositori classici come Beethoven (sempre a Bertoncelli: «Beethoven! Quell’isterico che non trovava le ciabatte sotto il letto, quell’umorale: si può considerare genio una persona incapace di padroneggiare i propri sentimenti?»). Tuttavia, non resisterà alla tentazione di cimentarsi pochi anni dopo, come vedremo, con forme musicali appartenenti alla tradizione colta, come l’opera, la messa e il balletto; né di dedicare proprio al grande compositore tedesco, molti anni più tardi, la sua seconda fatica cinematografica, Musikanten.

Da quello che si può desumere da queste dichiarazioni, il rifiuto di Battiato non si indirizza tanto verso la musica colta in generale, cioè quella che comunemente viene definita musica classica, quanto verso quel movimento d’avanguardia del secondo Novecento a cui facevano capo appunto i suoi maestri, i già citati Stockhausen e Cage, ma anche compositori come Berio, Donatoni, Sciarrino. Persino Brian Eno. «A volte dubito che esista una musica contemporanea», dirà nel 1980 alla rivista Music. «A volte penso che i vari Satie, Luigi Nono, Eno siano soltanto dei cialtroni che è meglio lasciar perdere perché sono deprimenti. Certo, la ricerca è una componente importante… soprattutto se riesci a vincere il concorso Stockhausen con un bel premio in denaro. Quello sì che mi farebbe comodo».

Questo è quello che dicono i giornali. Nei ricordi di chi c’era, le cose andarono un po’ diversamente. Il maestro Pio ci tiene infatti a fare dei distinguo: «Stockhausen no, l’ha sempre stimato, l’ha sempre considerato un grande. Hanno scritto cose che non sono vere. Franco era amico di Stockhausen, lo stimava molto. […] Beethoven lo vede come un mostro sacro. Piuttosto – continua Pio – non l’ho mai sentito parlare bene di Berio, Donatoni, Sciarrino, tutta quella corrente là. Allora c’erano molti dibattiti in giro e lui veniva attaccato». Per un artista scomodo come Battiato, talentuoso abbastanza da diventare amico di compositori e musicisti colti, ma non sufficientemente allineato per essere apprezzato da tutti, l’annosa diatriba tra avanguardia e cultura pop(olare) viene vissuta in prima linea, tanto più nel momento in cui decide di dedicarsi alla musica leggera. Non deve essere stato facile all’inizio difendere le idee rivoluzionarie che sottendono a questa clamorosa svolta: L’era del cinghiale bianco vendette solo 9 mila copie, e la nuova canzone ironica e pseudocolta di Battiato all’inizio venne liquidata dai più con disprezzo. «In principio era un linguaggio nuovo che faceva ridere un po’ tutti», commenta Pio. «Nessuno lo aveva preso sul serio. I giornali intitolavano i suoi concerti “Da Stockhausen a Orietta Berti”». Come vedremo, dopo il successo clamoroso de La voce del padrone, i giudizi cambieranno decisamente.

Il disco si apre con la title-track e uno studio per violino di Giusto Pio, che ci proiettano immediatamente nel Battiato-pensiero. A dispetto di quello che comunemente si pensa, dal punto di vista musicale «L’era del cinghiale bianco» non costituisce un taglio così radicale rispetto al passato: mentre la forma – quella della canzone pop – rappresenta una novità, la musica è un sofisticato ibrido tra sonorità pop e retaggi colti, dall’uso di strumenti come il violino e l’orchestra alle citazioni musicali, come questo primo studio. Dal punto di vista testuale, il titolo di questa prima canzone (e dell’album) si ricollega a tutto un percorso di studi filosofico-esoterici intrapreso dal cantautore dalla metà degli anni Settanta, grazie soprattutto alla frequentazione di Henri Thomasson (suo maestro spirituale) e della scuola di G.I. Gurdjieff. Qui il riferimento si trova in particolare nell’opera di René Guénon, Il re del mondo, saggio che viene citato anche in «Magic Shop» e che dà il titolo alla quinta traccia dell’album. «Secondo gli studiosi di esoterismo», spiega Battiato, «nella tradizione celtica il cinghiale bianco rappresentava il potere spirituale, mentre l’Orsa maggiore raffigurava il potere temporale. Il cinghiale bianco, che rappresentava un ciclo positivo in cui la conoscenza prescindeva dalla deduzione, venne spodestato dalla ribellione del potere temporale, per cui, sempre secondo le teorie esoteriste, noi stiamo vivendo il Kali-Yuga, che è il ciclo più basso dell’universo. Nella canzone si respira un’aria che chiamerei di regressione iperrealista. Nonostante nella canzone riporti un’atmosfera di cultura che mi appartiene moltissimo, io dico che “spero che ritorni l’era del cinghiale bianco” perché rappresenta una situazione superiore ai piaceri della vita, perché appartiene a una zona spirituale in cui non esiste il concetto di “invisibile”. Questa, in sintesi, è la canzone» (Ciao 2001, 1979). In Italia il 1979 rappresenta il culmine degli anni di piombo e della lotta armata (Moro era stato “giustiziato” nel maggio dell’anno prima) mentre, per contrasto, nelle classifiche estive dominano le canzonette da spiaggia di Alan Sorrenti («Tu sei l’unica donna per me») e Julio Iglesias («Se tornassi»); Battiato dunque, cantando «spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco», punta il dito e denuncia la corruzione del mondo contemporaneo, con un linguaggio simbolico-esoterico che non ha precedenti.

L’ironia “a chili” e il sarcasmo esplodono con veemenza nel brano successivo, «Magic Shop», dove «C’è chi parte con un raga della sera / E finisce per cantare La Paloma», mentre «La falce non fa più pensare al grano / Il grano invece fa pensare ai soldi». La denuncia sprezzante dello svuotamento di valori vissuto nella nostra epoca (la canzone è del 1979, ma vogliamo ignorarne forse l’attualità?), non risparmia nemmeno un riferimento al Vangelo («Deduco da una frase del Vangelo che è meglio un imbianchino di Le Corbusier») e una stoccatina sagace ai giornalisti «lucidi e geniali».

Musicalmente, per contrasto, ci troviamo di fronte a una classica ballata soft rock senza ritornello, in cui la voce di Battiato, pur pronunciando parole velenose, si innalza dolce e melodiosa. Lo stesso espediente verrà usato ancora (pensiamo ad esempio all’invettiva di «Up Patriots to Arms» cantata con un filo di voce acutissima). «Sono un cantore tradizionale» è la giustificazione di Battiato. «Mi sento molto legato alla tradizione del cantante di raga, anche se poi non abbiamo niente in comune se non l’atteggiamento, la posizione, la disposizione a cantare in un certo modo, mettendosi in uno stato d’animo particolare per affrontare un canto» (Pulcini). Da qualunque disciplina tragga ispirazione, Battiato propone un linguaggio dalla forma e dai contenuti assolutamente nuovi, in cui la rima finale tra i versi è quasi del tutto assente (sostituita però da altri artifici metrici, come l’allitterazione e il rimalmezzo) e il canto si fa piano e levigato, diverso sia dal gorgheggio vibrante di impostazione lirica della canzone storica che dall’urlo rauco e selvaggio degli anglofili. Un discorso a parte va fatto invece per l’uso di certi abbellimenti e note legate dal sapore decisamente arabeggiante, come accade in questo disco nel vocalizzo di «Luna indiana»: Battiato dichiara che è un modo di cantare che gli è sempre venuto naturale, «Un accenno di suono che offre già da solo la visione di un mondo». Come ben sappiamo, la fascinazione che le terre e la cultura d’Oriente esercitano sull’artista catanese (soprattutto il misticismo di matrice islamica), è tuttora una delle componenti fondamentali del pensiero e dell’opera di Battiato, che in questo album si esprime in modo ancora embrionale ma suggestivo in un brano come «Strade dell’Est». La spiegazione personale di questo innamoramento si trova negli ultimi due versi («E vecchi curdi che da mille anni / Offrono il petto a novene»), in cui Battiato mette in bocca a personaggi mediorientali una forma musicale prettamente siciliana – le novene sono infatti preghiere popolari cantate per tradizione nel periodo d’Avvento –, proponendo una sintesi davvero suggestiva.

Dopo lo splendido sipario strumentale di «Luna indiana», eseguito dai due pianisti classici Danilo Lorenzini e Michele Fedrigotti (Battiato ricambierà il favore producendo, quello stesso anno, il loro disco I fiori del sole, su etichetta Cramps), è la volta de «Il re del mondo», altro brano-manifesto ispirato alle letture esoteriche del nostro in questo periodo: il titolo è preso infatti dal libro omonimo dello studioso francese René Guénon. «René Guénon ha scritto un libro intitolato Il re del mondo», spiega Battiato a Pulcini. «Ma anche molti altri studiosi di religioni hanno il dubbio che il nostro pianeta sia governato da forze oscure. Il re del mondo è proprio questo: una forza che determina di nascosto le sorti del pianeta. Come un burattinaio invisibile che è causa del nostro dolore e che “ci tiene prigioniero il cuore”». Il re del mondo dunque come metafora del degrado spirituale dell’umanità, che continua il discorso iniziato in quest’album con «L’era del cinghiale bianco» e «Magic Shop»; a mediare l’atmosfera concettualmente pesante di questi brani, tre pezzi lirici («Strade dell’Est», «Luna indiana» e «Stranizza d’amuri») e un brano mozzafiato dal titolo sacro, «Pasqua etiope».

L’anomalia di «Pasqua etiope» si coglie immediatamente nell’incipit testuale, quando sentiamo Battiato declamare con voce piana: «Rèquiem aetèrnam, dona eis, Domine»: si tratta evidentemente di una messa per i defunti. Il riferimento più prossimo per Battiato è probabilmente la Messa da requiem (K. 626) di W.A. Mozart; ma la provocazione qui non si presenta tanto a livello musicale, quanto nell’ossimoro di abbinare un testo liturgico usato nella messa per i defunti a un titolo come Pasqua (quindi Resurrezione) etiope (aggettivo esotico, fortemente estraniante).

Per quanto riguarda la religiosità e il rapporto con il mondo e la società contemporanea, il cantautore non ha mai nascosto un atteggiamento severo nei confronti della Chiesa e del cattolicesimo. «Sono contrario a una certa liturgia grossolana», dice, «fatta per parlare e non per realizzare un vero rito interiore. Ma non ho preclusioni. Da un lato non accetto dogmaticamente il percorso del cattolicesimo, dall’altro non sono contrario ai cattolici interessanti. Devo dire comunque che ho amato e amo molto alcuni personaggi del nostro cattolicesimo, sia quelli storici, sia quelli contemporanei. La mia visita in certi monasteri, specialmente femminili, mi ha elettrizzato. La conoscenza di certe monache è stata contagiosa» (Pulcini). Esattamente dieci anni dopo, nel 1989, questo amore per «certi personaggi del cattolicesimo contemporaneo» lo porterà ad accettare di esibirsi in concerto al Vaticano, di fronte a Papa Giovanni Paolo II.

L’album si chiude con un brano molto particolare, «Stranizza d’amuri», prima canzone in siciliano e prima canzone d’amore di Battiato. Sulla parsimonia con cui si cimenterà in futuro nella canzone d’amore – tra cui «E ti vengo a cercare» e «La cura», brani per altro di grandissimo successo commerciale –, il cantautore ha motivato così la sua scelta: «(Ho trattato la tematica) solo quando ero inseguito da un ricordo. Non sono uno che si innamora ogni anno: mi sarà successo due o tre volte nella vita, e allora ho scritto una canzone per ricordo. Ho un certo riserbo in proposito. Non mi piace sfruttare il tema dell’amore. Il sesso e la sfera dei sentimenti», continua, «devono restare nel privato. E non è una questione di pudore» (Pulcini). In questo brano però la componente soggettiva è molto più attenuata di quanto si possa pensare: l’amore è accennato solo nella seconda strofa, ed è inserito in un ben preciso contesto storico («Ccu tuttu ca fora c’è a guerra») e sociale («A litturina da Ciccum­Etnea / I saggi ginnici ’u Nabuccu / A scola sta finennu»). L’espressione «stranezza d’amore» proviene da un libro, in questo caso il saggio Un nuovo modello dell’Universo di Peter Ouspensky, illustre seguace di G.I. Gurdjieff e fautore della diffusione del sistema della Quarta Via in Occidente nella prima metà del Novecento; ma al di là di qualsiasi citazione, è indubbio che la bellezza di questa canzone risieda comunque nel gusto autentico e popolare che l’idioma dialettale sa evocare.

E Battiato questo lo sa bene: «Il dialetto possiede una certa saggezza, una visione del mondo», dice, «una capacità onomatopeica di inventare un vocabolo che nello stesso tempo ti descrive una cosa per cui non c’è confronto. Un’unione perfetta tra ciò che si sta scrivendo e il significato del vocabolo» (Cozzari). Il dialetto per Battiato, piuttosto che semplice caratterizzazione, è dunque un efficace mezzo di sintesi, come una qualsiasi altra lingua straniera. Ma a differenza del siciliano, che il cantautore utilizzerà solo in altre due occasioni nell’intero arco della sua carriera («Veni l’autunnu» contenuta in Fisiognomica del 1988 e «Il cammino interminabile» in Ferro battuto, 2001), l’inglese, il tedesco e lo spagnolo – ma anche l’arabo, il greco antico e il latino – vedranno nelle sue canzoni un utilizzo sempre più massiccio e sostanziale, a partire proprio dal successivo Patriots.

Patriots (EMI, 1980)

«Up Patriots to Arms» / «Venezia-lstanbul» / «Le aquile» / «Prospettiva Nevski» / «Arabian Song» / «Frammenti» / «Passaggi a livello»

Produzione: Angelo Carrara

Testi e musiche: Franco Battiato

Arrangiamenti: Franco Battiato e Giusto Pio

Registrato allo Studio Radius di Milano nel luglio 1980

Copertina: Francesco Messina

Fotografie: Roberto Masotti, Piero Cattaruzzi.

Musicisti: Franco Battiato (voce, VCS3); Giusto Pio (violino); Eugenio Spanò (voce recitante); Phil Destrieri (Oberheim, ARP2006, organo); Antonio Ballista (pianoforte); Gianfranco D’Adda (percussioni); Alberto Radius (chitarra); Gigi Cappellotto (basso); Flaviano Cuffari (batteria).

A solo un anno di distanza da L’era del cinghiale bianco esce Patriots, il secondo album della prima trilogia pop del cantautore catanese. Pur rappresentandone forse il momento più debole, tra la novità rappresentata dal Cinghiale bianco e quel successo senza precedenti che fu successivamente La voce del padrone, Patriots è il disco in cui Battiato si focalizza con più convinzione sul suo nuovo ruolo di cantautore e sullo stile, raggiungendo almeno un paio di vette espressive ancora oggi considerate dei momenti assoluti del suo canzoniere.

Il nuovo Franco Battiato si impone in primo luogo sulla copertina (realizzata da Francesco Messina con la tecnica del collage), grazie a un look studiato ad hoc e carico di simbolismi: vestito e cravatta scuri da impiegato di banca (in contrapposizione all’immagine freak di molti suoi colleghi in quegli anni), portati con disinvoltura su sandali e calzini bianchi (il particolare, l’immancabile elemento ironico e “disturbante”, si vede solo nella piccola immagine seduta sullo sfondo); nel ritratto in primo piano, una chitarra elettrica a tracolla, ostentata come status symbol della perfetta popstar. In secondo piano, Battiato e Pio seduti in riva al mare impersonano se stessi e la loro collaborazione, l’uno reggendo sulle ginocchia una macchina da scrivere, l’altro un VCS3. A completare il tutto, la «Preghiera del giovane patriota», un esilarante manifesto firmato sempre da Messina che, in tono scanzonato (e forse un po’ snob), anticipa la poetica dell’album e racchiude numerosi riferimenti alle singole canzoni.

La costruzione di un’immagine pubblica va di pari passo con l’inizio di una consuetudine per la quale Battiato verrà un po’ criticato: il presenzialismo alle trasmissioni televisive. «Abbiamo fatto tanta di quella televisione da far spavento», ammette in effetti Pio. «Tv private ce n’erano tante all’epoca (in uno scantinato, in una baracca di legno…), e noi andavamo dappertutto, perché allora si doveva fare così per promuoversi». Una delle famose comparsate in questo periodo è quella a Domenica In, con Pippo Baudo; il musicista si presenta fasciato in un impermeabile, e quando Baudo gliene chiede il motivo, lui risponde sibillino: «Sono di passaggio e il tempo è instabile». Baudo, dietro le quinte, avrà la premura di elargirgli anche qualche consiglio, tra cui quello di inserire nel suo show delle ballerine; ma Battiato, imperturbabile, risponderà: «C’è chi fa musica con la testa, e chi con le gambe».

Appena qualche mese prima dell’uscita dell’album, Battiato forniva qualche anticipazione dell’atteso successore de L’era del cinghiale bianco a Ciao 2001 dicendo che nel nuovo disco sarebbero spariti del tutto i riferimenti all’Oriente. In realtà, Patriots sarà l’ideale prosecuzione del precedente, con lo stesso numero di brani (sette), disposti all’incirca con la stessa alternanza tra pezzi ritmati e lenti, e con riferimenti più che espliciti all’Oriente nel ritornello di «Arabian Song», nel titolo di «Venezia-Istanbul», e nei vocalizzi finali di «Le aquile».

L’ascolto si apre con una citazione classica, un accenno dall’imponente ouverture del Tannhäuser di Richard Wagner. Anche qui, per la forte componente simbolica ed esoterica dell’opera, e forse per la sentita comunanza con la biografia del compositore di Lipsia (anche Wagner fu un autodidatta in musica, ed era appassionato di filosofia ed esoterismo) Battiato dichiara la sua appartenenza e, allo stesso tempo, ostenta un tributo alla musica colta non-contemporanea, omaggiando uno dei massimi vertici del secondo romanticismo ottocentesco.

La prima canzone, «Up Patriots to Arms», è un pezzo molto ritmato e dalle sonorità particolarmente anni Ottanta, che molti giornalisti criticano ancora oggi per essere troppo asservite alla moda dell’epoca. Ben sintetizzati nel ritornello («Up patriots to arms, engagez­vous / La musica contemporanea mi butta giù») si trovano due elementi già visti nel Cinghiale bianco: il plurilinguismo e l’attacco al movimento d’avanguardia. Il titolo appartiene invece a un ricordo di viaggio: «Nel 1975 facevo un disastroso tour inglese e una sera a Birmingham capito in un pub, sul muro del quale era scritto “Up patriots to arms”, ossia “Su, patrioti, alle armi”. All’inizio ho pensato a qualche fanatico, mi faceva un po’ ridere, poi a distanza ho pensato che una frase del genere potrebbe essere un buon inizio per cominciare a fare delle cose nuove, per tentare dei cambiamenti. In questo io considero l’album positivo» (Ciao 2001, dicembre 1980).

Dopo «Le aquile» (tratta dal romanzo Le statue d’acqua di Fleur Jaeggy, autrice di origine svizzera molto apprezzata dal cantautore catanese), arriva la celeberrima «Prospettiva Nevski» – nata, a detta del suo autore, tutta insieme: parole, musica e accordi –, e lo scenario cambia improvvisamente. Per prima cosa, sparisce la condiscendenza verso le sonorità modaiole: il pezzo si apre con un delicato accompagnamento di tastiere su una base rarefatta di synth. La voce di Battiato declama la prima strofa (di sei versi sciolti) su una melodia molto dinamica, incastrandoli in una struttura asimmetrica di 5 + 6 + 4 + 4 battute, con una tecnica ad accumulo sulla terza e quarta battuta (quando dice «incontrastato sulle piazze vuote e contro i campanili») dall’effetto disorientante. Il testo è costituito da una serie di immagini cinematografiche (i soldati che si riscaldano vicino al fuoco, le donne che escono da messa) che ci proiettano in un mondo e una cultura tanto lontani agli occhi di un occidentale quanto misteriosi e affascinanti. Un saggio della straordinaria capacità di sintesi del cantautore catanese è ben esemplificato nei quattro versi che riassumono la drammatica storia del ballerino russo Vaclav Nizinskij: «Poi guardavamo con le facce assenti / La grazia innaturale di Nizinskij / E poi di lui si innamorò perdutamente il suo impresario / E dei balletti russi». Il finale, che chiude coi famosi versi: «E il mio maestro mi diceva com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire», per il suo autore ha una spiegazione più semplice di quello che si possa pensare: «I maestri sono le tante persone che, a un certo punto, ho conosciuto nel corso della mia vita», spiega a Pulcini. «Sono persone che, a una certa età, hanno trovato la forza di ricominciare. Una donna che a 75 anni si diploma in clavicembalo è un maestro. L’alba è la gioventù, la capacità di cambiare, di evolvere, e l’imbrunire è la vecchiaia. È difficile trovare “l’alba dentro l’imbrunire”, però ci si può riuscire» (Pulcini). La bellezza del testo insieme all’originalità della struttura fanno senza dubbio di questa canzone uno dei momenti migliori dell’intero canzoniere del cantautore. E pensare che all’inizio Battiato non era per nulla convinto della bontà del pezzo; la facilità con cui l’aveva scritto gli aveva fatto venire il dubbio che fosse scontato. «Fu Giusto Pio a convincermi a registrare “Prospettiva Nevski”», dirà a Vincenzo Mollica molti anni più tardi (Parole e canzoni, 2004), ammettendo che mai consiglio fu più provvidenziale.

L’altro climax di questo disco è la seconda traccia, «Venezia-Istanbul». La canzone si basa su poche idee melodiche semplici, ma presenta una serie di piccoli «trucchi» strutturali che la rendono elaborata e molto interessante. L’incipit ha il suono di una classica canzone pop-rock, con un riff di chitarra di Radius in primo piano, ma dopo sole sedici battute (della durata di trenta secondi) l’atmosfera cambia improvvisamente, e chitarra elettrica, basso e batteria lasciano il posto a un delicatissimo accompagnamento di pianoforte e violino, che procedono a tempo dimezzato. È il violino che conduce in un primo momento, proponendo due frasi melodiche che occupano 4 e 7 battute, per un totale di 11, la lunghezza della prima strofa. A questo punto entra la voce di Battiato, che più che cantare declama tre versi di diversa lunghezza («Venezia mi ricorda istintivamente Istanbul…») e che risulta sfasato rispetto al fraseggio del violino. L’effetto è quello di una perdita momentanea del senso del ritmo, tanto più che non c’è la batteria a segnare il tempo. Il ritmo ritroverà il giusto passo solo alla terza strofa («Mi dia un pacchetto di Camel senza filtro e una minerva…»), quando rientra la batteria e la struttura strofica ritroverà una forma più regolare di sedici battute. Anche Battiato canta in modo più “rigoroso”, incasellando le sillabe accentate nei tempi forte di battuta in modo più regolare. Dopo cinque strofe (quattro più una strofa che funge da ritornello) torna il riff iniziale di chitarra in un piccolo bridge che divide la prima dalla seconda parte della canzone, e così ogni elemento ritrova la sua funzione all’interno del pezzo. Uso di versi sciolti nel testo, molteplicità di nuclei melodici, cambi di tempo e strutture strofiche irregolari: queste sono le caratteristiche fondamentali del Battiato pop della prima metà degli anni Ottanta; espedienti musicali che, a ben vedere, derivano più da un ambiente musicale colto piuttosto che popolare, oppure prendono a modello certi “casi anomali” come Lucio Battisti o i Beatles del periodo maturo.

Un altro elemento che ritroveremo spesso in Battiato è il citazionismo, testuale e musicale. Dopo l’uscita de L’era del cinghiale bianco, Battiato aveva profetizzato la composizione di un brano che contenesse «Stralci di poesie del nostro Romanticismo», ed eccolo qua: in «Frammenti» si possono riconoscere facilmente Il sabato del villaggio di G. Leopardi («La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole»); La spigolatrice di Sapri di L. Mercatini («Me ne andavo una mattina a spigolare quando vidi una barca in mezzo al mare»); La cavallina storna di G. Pascoli («Hanno veduto una cavalla storna riportare colui che non ritorna»); e ancora Leopardi con Il passero solitario («D’in su la vetta della torre antica passero solitario alla campagna / Cantando vai»). Il collage poetico – definizione che il cantautore in parte rifiuta, in quanto sostiene che ogni singola frase ha in sé un senso compiuto, mentre sono le frasi ad essere accostate in una successione priva di logica consequenziale – è ben più di un divertissement, poiché diventerà una delle sue tecniche compositive più frequentate e peculiari nella produzione degli anni Ottanta, fino a Mondi lontanissimi.

A chi lo rimprovera di essere troppo ermetico (se non del tutto incomprensibile), Battiato contrappone ancora una volta – come per il plurilinguismo presente in «Arabian Song» e «Passaggi a livello» – il primato del suono sulla parola: «Le parole sono suono e hanno importanza anche per questo. Del resto già a proposito di Joyce si parlava di delirio lasciato fluire… bene, sono d’accordo: lasciate fluire il delirio!» (Music, dicembre 1980).

È evidente che questa affermazione vuole essere solo una provocazione (o una risposta di comodo) in quanto l’“insostenibile leggerezza” di versi come «Un giorno sulla prospettiva Nevski/ Per caso vi incontrai Igor Stravinskij» («Prospettiva Nevski») o l’ironia di accostamenti come «Good Vibrations, Satisfaction, Sole mio» («Passaggi a livello») non può derivare solo dal valore fonetico-simbolico delle parole, ma anche e soprattutto dal significato poetico che scaturisce dall’accostamento pseudo-casuale di questi ineffabili versi in libertà. E quello che li rende accettabili – anzi, addirittura di successo presso un pubblico sempre più vasto – non è l’apparente mancanza di senso, ma la veste frivola con cui vengono porti all’orecchio dell’ascoltatore: come avevamo già notato in L’era del cinghiale bianco, è la musica a farsi più semplice e accessibile, con una sempre maggiore preponderanza della sezione ritmica a scapito degli arrangiamenti d’archi e dei motivi agili e brillanti delle tastiere, che non sono, si badi bene, spariti del tutto, ma solo messi in secondo piano in fase di missaggio. I protagonisti assoluti diventano quindi quegli elementi musicali che possono avere maggior presa su un pubblico massmediatico: la melodia principale, il ritmo e la voce dell’interprete. Non è difficile intuire in tutto questo una strategia per ottenere il tanto sospirato consenso popolare. «Tra l’altro è logico», ammette lo stesso cantautore con candore alla rivista Music nel dicembre 1980. «Uno si mette a fare canzonette proprio per vendere». E i risultati non si faranno attendere.

La voce del padrone (EMI, 1981)

«Summer On a Solitary Beach» / «Bandiera bianca» / «Gli uccelli» / «Cuccurucucù» / «Segnali di vita» / «Centro di gravità permanente» / «Il sentimento nuevo»

Produzione: Angelo Carrara

Registrato allo Studio Radius di Milano

Testi e musiche: Franco Battiato

Arrangiamenti: Franco Battiato e Giusto Pio

Art director: Francesco Messina

Fotografie: Fabio Masotti.

Musicisti: Franco Battiato (voce); Giusto Pio (direzione d’orchestra); Phil Destrieri, DonatoScolese (tastiere); Alberto Radius (chitarre); Paolo Donnarumma (basso); Alfredo Golino (batteria); Claudio Pascoli (sassofono)· Madrigalisti di Milano (coro).

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Uscito nel luglio del 1981, La voce del padrone è il primo album italiano a raggiungere il milione di copie vendute, stazionando per oltre quindici settimane al n. 1 della classifica nazionale. Un successo strepitoso e un record imprevisto per un artista (e un team di lavoro) su cui fin dall’inizio la Emi non aveva puntato molto in termini di promozione commerciale. Con La voce del padrone quindi – il titolo tra l’altro è proprio il nome originario della Emi, nata in Gran Bretagna col nome di His Master’s Voice e caratterizzata dal logo con il cagnolino che ascolto la voce del suo padrone uscire da un grammofono – la prospettiva cambia completamente; all’uscita le vendite sembrano procedere con il successo discreto ma non clamoroso dell’album precedente (Patriots arrivò a vendere 40mila copie) ma nella primavera del 1982 il disco arriva a quota 2oomila, e ad agosto supera il tetto delle 500 mila copie, continuando a vendere, lento ma costante. A suggellare il tutto, una lunga tournée estiva di 6o date, che riempie i palazzetti dello sport di tutta Italia. Le più importanti riviste italiane di musica pop-rock dell’epoca (Ciao 2001, Il Monello) gli dedicano copertine e servizi, mentre i giornalisti danno sfogo alla fantasia con le definizioni più eccentriche: da «genio o mistificatore?» a «eretico della hit parade», da «aristocratico di massa» ad «artista del nomadismo interiore» ed «eroe solitario». Le etichette si sprecano, e Battiato le accoglie quasi tutte con malcelato piacere. Ma a chi gli chiede come viva questo momento di grazia, lui risponde con distacco: «Le cose che non arrivano per caso non fanno mai un particolare effetto». E si sente persino in dovere di giustificare il successo e la scelta artistica di cimentarsi nella canzone popolare: «Io e Giusto non abbiamo mai rinunciato a fare altra musica. Quando siamo partiti con L’era del cinghiale bianco pensavamo un po’ di scherzare. Dicevamo “Scommetti che si fa un po’ di soldini”. Ma poi ho dovuto riconoscere che questa forma musicale è dentro di me, perché io non dimentico che vengo dalla canzone. Non c’è di che vergognarsi: molti grandi musicisti hanno scritto canzoni. Brahms aveva una passione per le osterie e per la canzone vera, quella che, sostenuta dall’inventiva e dal rigore formale, riesce a salvarsi dalla demenzialità dei testi e delle melodie» (Tutto, 1981). Più recentemente, quando interrogato ancora sull’argomento, Battiato liquiderà il tutto con una battuta: «Come è successo? ’Na botta di culo», senza nascondere la noia e anche un po’ di compiaciuto snobismo.

Oltre a questo non dobbiamo dimenticare che nel 1981 per Battiato arriva anche il successo come autore di canzoni per altri interpreti, soprattutto grazie alla fruttuosa collaborazione con la brava e bella Alice, che proprio nel febbraio di quell’anno vince il Festival di Sanremo con la famosissima «Per Elisa»; le altre importanti collaborazioni di questo periodo sono con Giuni Russo, per cui Battiato e Pio producono e compongono Energie, e con Milva (Milva e dintorni).

Nonostante la svolta che questo album rappresenta nella carriera di Battiato, la formula non è affatto nuova, ma ricalca abbastanza fedelmente quello che abbiamo già sentito ne L’era del cinghiale bianco, e soprattutto in Patriots. Prima di tutto, la copertina, con un ritratto del cantautore che racchiude tutti gli elementi iconografici e simbolico-esoterici già trovati in precedenza: il look prevede ancora giacca e pantaloni (un completo spezzato che lo rende leggermente più casual rispetto all’eleganza in scuro di Patriots), sandali estivi, codino e occhiali da sole «per avere più carisma e sintomatico mistero». Sullo sfondo l’idea di una “solitary beach” grazie alla presenza delle caratteristiche palme, mentre in basso a destra, inserito nell’immagine quasi come un ritaglio di giornale, una porzione di cielo astrale che rappresenta – guarda caso – la costellazione dell’Orsa maggiore. Dal punto di vista dei contenuti musicali, abbiamo ancora sette pezzi (il numero è importante per ragioni cabalistiche) per un totale di poco più di mezz’ora di musica, il cui livello qualitativo e impatto commerciale questa volta però supera di gran lunga le pur buone raccolte dei dischi precedenti. Tutti i brani di questo disco sono potenziali singoli di successo, e di fatto entreranno tutti nella rosa delle canzoni preferite dal pubblico dei concerti (e da Battiato stesso) fino ai nostri giorni.

Si parte con «Summer On a Solitary Beach» (forse un vago riferimento al capolavoro di Philip Glass, Einstein On the Beach?), un pezzo dal ritmo sostenuto con un accattivante «gancio» melodico iniziale. La scelta estetica, dal punto di vista della strumentazione, è chiara fin da subito: prevaricano ancora le tastiere e una sezione ritmica “plastificata” (quel sound tipico degli anni Ottanta) a discapito della pur eccellente parte di chitarra di Alberto Radius. «Era nato come un pezzo solo orchestrale», dice Battiato a Ciao 2001 nel 1981. «La sensazione che voleva esprimere era quella di una spiaggia metafisica come ce ne sono tante nella letteratura fantastica, soprattutto argentina». L’effetto ondoso di questa mitica spiaggia solitaria è reso musicalmente con il gioco a incastro tra accompagnamento ritmico in 12/8 e la linea melodica del canto, in tempo binario. Inoltre, anche il rapporto tra strofa e ritornello è una sapiente combinazione tra tempo binario e ternario.

L’uso di espedienti di natura prettamente musicale e compositiva – la poliritmia, ma anche la struttura asimmetrica che abbiamo visto in «Prospettiva Nevski», e l’uso del madrigalismo che vedremo ne «Gli uccelli»  – è una prerogativa tipica di Battiato ed è una novità assoluta nel panorama della canzone commerciale italiana di questo inizio di anni Ottanta, così come una novità è l’utilizzo di un coro lirico – il coro dei Madrigalisti di Milano – in «Cuccurucucù» , un esperimento curioso e ben riuscito che verrà riproposto anche in futuro. Forse però queste caratteristiche sono sempre rimaste in secondo piano rispetto alle cifre stilistiche più sfacciate delle canzoni di Battiato: il sound alla moda e i testi, sempre più surreali e dissacranti.

A proposito di questi ultimi, continua ne La voce del padrone l’invettiva contro la musica “ufficiale” (con i famosi versi «A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / A Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie» da «Bandiera bianca»). «C’è del vero e c’è del falso», spiega Battiato per l’ennesima volta all’intervistatore di turno. «È vero, ma è anche vero che certe volte un pezzo di Vivaldi mi piace molto di più di uno di rock o di musica leggera. Ma questo non significa niente: in quel momento ho bisogno di dire quella cosa lì e la dico… e posso anche difenderla perché i critici di musica classica hanno sempre difeso della musica dogmatica con una quantità di libri veramente indecente. In realtà la musica classica è mediocre, eccelsa, può essere anche tremenda… ma non lo si dice mai! Le Sonate per pianoforte di Beethoven sono una cosa straziante!». Chi gli chiede spiegazioni su quale sia per lui questo centro di gravità permanente (ancora Gurdjieff), riceve solo risposte vaghe o addirittura secchi dinieghi, come se la faccenda non lo riguardasse affatto: «Non ho la minima idea di cosa sia», dice alla rivista Eternauta nel 1982, «Sono quelle frasi che metti così… volevo scrivere “cerco un centro per farmi la permanente”». Ancora il nonsense e lo sberleffo dunque, l’uso volutamente improprio di armi intellettuali a doppio taglio con cui Battiato ama ferire la critica e il pubblico colto, che nelle sue canzoni si diverte a cercare riferimenti filosofico-letterari ea darne chissà quale interpretazione misteriosa. A lungo andare però questa insistenza nel negare qualsiasi riferimento voluto appare forzata – un po’ come un bambino che lancia il sasso e poi nasconde la mano –, soprattutto a partire da Fisiognomica (uno dei dischi di cosiddetta musica leggera più seri della storia della canzone) e quando, più di dieci anni più tardi, Battiato abbandonerà la scrittura dei testi per affidare l’incarico all’amico filosofo Manlio Sgalambro.

Battiato comunque non sembra scherzare affatto quando compone pezzi di grande dolcezza poetica come «Gli uccelli» o «Segnali di vita». La bellezza del testo, nel caso del primo, è ulteriormente adornata con espedienti musicali raffinati e ancora molto attuali. Qui infatti Battiato fa un ampio uso del madrigalismo, figura musicale tipica della polifonia cinquecentesca in cui l’immagine o il concetto espresso dal testo viene tradotto simbolicamente in scrittura musicale – uno dei maggiori interpreti di questa tecnica fu Gesualdo da Venosa, al quale Battiato, quattordici anni dopo, dedicherà non a caso un’intera canzone, contenuta nell’album L’ombrello e la macchina da cucire. La tecnica del madrigalismo si trova ad esempio al verso «Aprono le ali», dove la voce si sdoppia con la sovraincisione di due parti vocali (a una terza di distanza), offrendo un’immagine figurata dell’esatto momento in cui un uccello dispiega le ali per spiccare il volo. Lo stesso avviene qualche verso oltre, quando canta: «Voli imprevedibili e ascese velocissime / Traiettorie impercettibili / Codici di geometrie esistenziali». La frase melodica oscilla ripetutamente su note a intervalli contigui, per ‘atterrare’ infine sulla tonica di un accordo maggiore. Il madrigalismo, sebbene non venga riconosciuto dai più, ha comunque un valore semantico ad effetto cumulativo riconoscibile (riaffermando ciò che viene già esplicitato dalla parola), come in questo caso, oppure viene usato con un doppio senso, o con un valore scherzoso. Quest’ultimo è il caso della conosciutissima «Summer On a Solitary Beach»: le otto battute del ritornello (che corrispondono ai versi: «Mare mare mare voglio annegare / Portami lontano a naufragare / Via via via da queste sponde / Portami lontano sulle onde») presentano quattro frasi melodiche (una per ogni verso) molto simili tra loro – ognuna di esse è caratterizzata da microvarianti, ma sostanzialmente provengono tutte dallo stesso nucleo melodico – disposte però su diverse altezze del pentagramma. Il gesto melodico di base quindi si sviluppa così: La3-Sol3, Do4-Sib3, Fa4-Mi4, La4-Sol4, per cui la voce gradualmente si innalza con un movimento ascendente a “terrazze” che sembra voler assecondare l’allontanamento dalle “sponde” di cui si parla nel testo, come una specie di effetto Doppler all’incontrario. Il risultato è molto efficace e anche buffo, e questo è solo uno dei tanti giochi musicali che Battiato usa per rendere le sue canzoni sofisticate, ma anche divertenti.

Un’altra caratteristica dello stile compositivo che emerge in questo disco è quella di utilizzare lunghi vocalizzi melodici a fine verso, soprattutto nei ritornelli: pensiamo a quello che accade ne «Il sentimento nuevo» («Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo-o-o­o»), «Segnali di vita»  («Mi fanno ricordare-e-e-e / Le dinamiche celesti»), «Cuccurucucù»  («Cuccurucucù paloma / Aiaiai, cantava»), anche se in quest’ultimo caso la citazione è evidente: si tratta de «La paloma», canzone popolare del messicano Tomas Mendes, resa famosa da grandi voci sudamericane come Caetano Veloso (la canzone era stata citata, con una punta di disprezzo, anche in «Magic Shop»: «C’è chi parte con un raga della sera / E finisce per cantare “La Paloma”»).

Com’è già successo riguardo all’influenza araba nella sua musica, Battiato giustifica così il legame tra cultura sudamericana e Sicilia: «La Sicilia della mia infanzia è molto vicina alla tradizione spagnola e a quella sudamericana. Tutti i paesi sottosviluppati hanno in comune molte cose. Poi c’è l’occupazione spagnola, comune alla Sicilia e al Sud America. La lingua ne ha ancora dei segni». Di sicuro, l’attaccamento alla linguae alla cultura spagnola non è lontanamente paragonabile alla passione che Battiato prova per la cultura medio-orientale, che lascerà un marchio ben più profondo nella sua musica e nella sua poetica.

«Ero dell’Ariete, poi ho cercato di cambiare»: è una delle battute con cui Battiato ama sintetizzare uno dei temi che ricorrono più spesso e con costanza nella sua poetica, cioè la voglia e la necessità di evolversi. E sul concetto di evoluzione arriva la bellissima «Segnali di vita», quinto pezzo dell’album: «Ho sempre pensato, da quando ho cominciato ad avere coscienza di me stesso», spiega Battiato con tono più serio a Pulcini, «Che l’evoluzione passa attraverso il cambiamento di sé. Si parte dall’analisi, e dall’accettazione o meno, di certi aspetti del carattere. Se uno trova che alcune cose non vanno bene e lo fanno star male, bisogna cambiare». Il cambiamento è percepito nel momento più magico e misterioso della giornata, al tramonto, quando «i lampadari nelle case lentamente si accendono quasi ad imitare le stelle» (Ciao 2001, 1981). Il tutto giocato sul sassofono di Claudio Pascoli, un’originale sezione corale e un’ampia frase orchestrale finale.

«Il sentimento nuevo» (pezzo conclusivo dell’album, associabile sia a «Stranizza d’amuri» che a «Passaggi a livello» per la tematica autobiografica) più che una canzone sull’amore, è una canzone sul sesso. «Sono da anni combattuto tra le due strade», spiega ancora a Pulcini, «quella che utilizza il sesso come elevazione mistica e quella cattolica della trasformazione. C’è una frase che non so se utilizzerò per Gilgamesh (l’intervista risale circa ai primi anni Novanta, N.d.A.), ma che avevo scritto per quest’opera. Diceva così: “Quando raggiungevo una forte intensità in amore, il mio seme diventava più denso e più puro”. Nell’antichità si parlava di parossismo orgiastico, della tecnica di trattenimento del seme, un orgasmo continuo con una fuoriuscita e un rientro del seme. Quella era una tecnica per arrivare a livelli di estasi al di là dell’umano, quasi insopportabili per forza, intensità e gioia». Anche su questo aspetto delle sue convinzioni Battiato ironizzerà, ma con tenerezza, molti anni più tardi, quando nel suo primo film, Perduto amor, inserisce la scena della lezione di sesso tantrico vista di nascosto dai due giovani fidanzatini della scuola di Baruk Togarmi. Il protagonista del film e la sua giovane amica infatti, con la vorace curiosità tipica degli allievi inesperti, ritengono di essere pronti a capire questa antichissima e nobile pratica mistica, e decidono di guardare insieme una lezione-video, nonostante il divieto del maestro. La scoperta li travolgerà e li lascerà seduti l’uno accanto all’altra, imbarazzati oltre misura, senza avere nemmeno il coraggio di scambiarsi uno sguardo.

In questo album, come nel precedente, a suonare le tastiere è Filippo Destrieri, un giovane musicista conosciuto verso la fine degli anni Settanta ed entrato a far parte dell’entourage di Battiato già durante la tournée de L’era del cinghiale bianco. Come Battiato, Destrieri è un grande appassionato di synth e marchingegni elettronici – ARP2006, Oberheim e, naturalmente, anche il mitico VCS3–, e a lui verranno affidate d’ora in poi le basi elettroniche di tutte le sue composizioni. È importante ricordare questo fatto, perché la passione per l’elettronica (e per i suoi continui progressi) è una delle costanti più o meno evidenti della carriera di Battiato. Sul metodo compositivo del cantautore, Destrieri racconta: «C’è molto di scritto, nel senso che l’idea del brano è scritta – lui d’altro canto è un compositore. Poi se c’è qualche idea che può valorizzare la cosa si aggiunge liberamente. […] Era bello quando non c’erano i computer, che si doveva suonare tutto “a mano”, invece col computer la sfida è quella di far suonare tutto più umano e meno meccanico possibile».

La sfida con la macchina caratterizzerà soprattutto i tre dischi successivi, ma riemergerà con prepotenza ancora maggiore – con risultati a dir poco sorprendenti – nella produzione della seconda metà degli anni Novanta.